Il piano per sostituire gli sgravi sul lavoro, in scadenza a fine anno, c’è. Altrettanto conveniente per le aziende. E soprattutto strutturale. Il governo vuole cioè sigillare con un ‘per sempre’ gli sconti offerti a chi assume con le regole del Jobs Act tramite contratto a tutele crescenti, dunque con un tempo indeterminato privo di articolo 18.
Sottraendo così le strategie aziendali allo strazio di veder riconfermato o meno, di anno in anno, il bonus nella legge di Stabilità. Qual è il piano? Tagliare di sei punti il cuneo contributivo, tre punti a carico del datore e tre del lavoratore. Semplice e permanente. E soprattutto, questa la sorpresa, gratis.
Senza oneri per lo Stato, se non quelli transitori per tamponare le esigenze di cassa dell’Inps, magari nei primi due o tre anni della riforma. Poiché qui si parla di contributi previdenziali, non coprire oggi con risorse pubbliche questo taglio come accade con il bonus in vigore e come sempre è avvenuto per tutti gli sgravi sul lavoro del passato, dal Giovannini al Letta – significa avere pensioni più povere domani.
Ecco perché nel piano del governo al lavoratore sarebbe lasciata l’opzione di investire i suoi tre punti in meno nei fondi pensione integrativi. O di incamerarli in busta paga, ma tassati. Fermo restando, che il taglio degli altri tre punti (quelli a carico del datore) si tradurrebbe in una decurtazione secca dell’assegno futuro, senza se e senza ma. Assegno previdenziale, tra l’altro, calcolato per intero con il metodo contributivo. E dunque, viste le carriere precarie dominanti, già di per sé ridotto all’osso.
Semplificando, per farsi assumere (senza articolo 18) il giovane dovrebbe rinunciare a un pezzo di pensione futura e pagarci sopra pure l’Irpef. Irrealistico? L’ideatore del piano, l’economista bocconiano Tommaso Nannicini, consigliere del premier, supervisore e in gran parte autore del Jobs Act, lo ritiene ragionevole e fattibile, «se c’è volontà e credibilità politica ». Dalle colonne dell’Unità, in un editoriale apparso martedì scorso, scrive che «si potrebbe anche pensare di sostituire la decontribuzione sui nuovi assunti con un taglio strutturale del cuneo contributivo, senza fiscalizzarne i costi e incentivando i lavoratori a investirne una parte nella previdenza complementare ». Questo passaggio dal primo al secondo pilastro previdenziale, «avrebbe sì costi (di cassa) nel breve periodo, ma ridurrebbe il debito previdenziale implicito nel lungo periodo». Tradotto: meno liquidità per l’Inps oggi, ma pensioni ridotte domani. Dunque risparmi.
Strategia win-win, vincono tutti? Abbiamo chiesto alla Uil -Servizio politiche territoriali di fare qualche calcolo. L’operazio- ne intanto varrebbe circa 800 milioni per il 2016, 2 miliardi nel 2017 e 3,2 miliardi per il 2018. In totale, 6 miliardi nel triennio (orizzonte di programmazione della legge di Stabilità). Contro i 12 miliardi dell’attuale sconto che però ha solo quattro mesi di vita residua. Le aziende che assumono entro il prossimo 31 dicembre pagano zero contributi previdenziali per tre anni (con un tetto annuo di 8.060 euro ad assunto), ma questi contributi sono colmati all’Inps dallo Stato, dunque nessun impatto sulle pensioni. Con il nuovo piano, lo sgravio è meno generoso – sei punti in meno anziché il 33% ma caricato per intero sul lavoratore e la sua pensione. Non solo. Se il dipendente trattiene il bonus in busta paga, questo viene tassato. Con entrate per lo Stato pari a circa 189 milioni di Irpef il primo anno, 400 milioni nel secondo, 589 milioni nel terzo ( nell’ipotesi che nessun lavoratore versi ai fondi, la cui tassazione è stata tra l’altro inasprita proprio dal governo Renzi, dall’11,5% al 20%). Dunque l’erario non spende e ci guadagna. E i 6 miliardi di costi virtuali per lo Stato si trasformano in 6 miliardi di tagli reali alle pensioni dei neo-assunti (se mai le vedranno).
Ragionando in termini di busta paga, chi guadagna 25 mila euro lordi l’anno (dunque 1.923 netti al mese), se non opta per i fondi, potrebbe contare su 43 euro netti in più al mese (63 lordi), 512 euro netti extra all’anno. Ma attenzione, potrebbe rischiare di perdere l’altro bonus, quello da 80 euro, visto che si trova nella fascia al limite, superata la quale quel bonus si perde. In totale, il taglio del suo cuneo contributivo sarebbe pari a 1.500 euro all’anno ( 126 al mese), sommando la riduzione dal 33 al 30% dei contributi a carico dell’azienda con l’altra dal 9,19 al 6,19% di quelli a suo carico. Di questi 1.500 euro, la metà e dunque 750 euro potrebbero andare nei fondi pensione. Altrimenti trattenuti nello stipendio, laddove però si ridurrebbero a 512 euro. La scelta per il dipendente sarebbe dunque questa: accontentarsi di 43 euro in più al mese o metterne 63 nella previdenza complementare (sapendo di averne persi altrettanti). E avere, particolare non trascurabile, un lavoro.
Repubblica – 22 agosto 2015