di Arturo Bianco. A seguito della condanna definitiva per uno dei reati commessi da pubblici ufficiali contro le pubbliche amministrazioni maturano i presupposti per la azione di responsabilità amministrativa per danno all’immagine, che si concretizza nella «perdita di prestigio» dell’ente pubblico. Sono queste le indicazioni dettate dalla delibera n. 670/2015 della sezione giurisdizionale della Corte dei conti della Sicilia.
Alla base di tali indicazioni vi sono le previsioni contenute nell’articolo 7 della legge 97/2001. Ricordiamo che i principali reati commessi da pubblici ufficiali contro le Pa sono tutte le forme di concussione e corruzione, nonché l’abuso d’ufficio e il peculato.
La responsabilità contabile
Sul terreno procedurale la sentenza mette in evidenza che l’avvenuta condanna per uno di questi reati costituisce il «presupposto» per l’avvio del giudizio di responsabilità contabile, ma che «la valutazione» dei fatti e degli elementi psicologici, al fine di determinare se ricorrono i presupposti per la maturazione della componente del dolo o della colpa grave, è rimessa al processo contabile. Tale disposizione si applica in particolare nel caso, come quello oggetto della pronuncia, del patteggiamento in sede penale, anche se in tal caso gli elementi probatori assunti in tale sede acquistano una forza maggiore.
Non costituisce circostanza esimente il fatto che il reato non si sia concretizzato nella erogazione della cosiddetta “mazzetta”, ma in una serie di benefici che sono stati erogati dai privati al dirigente pubblico condannato: siamo comunque in presenza di comportamenti antigiuridici, il cui rilievo si deve peraltro considerare accresciuto alla luce della constatazione del loro carattere sistematico e reiterato. E ciò in quanto tale fenomeno deve essere inteso come «indicatore dell’asservimento della funzione stessa a interessi altrui». Né assume al riguardo rilievo il fatto che i privati non sono stati chiamati nello stesso giudizio penale.
La perdita di prestigio
Il punto centrale di maggiore rilievo della sentenza è dato dal giudizio che il danno di immagine si concretizza nella lesione determinata dalla «perdita di prestigio» dell’amministrazione, intendendo come tale la caduta di credibilità dell’ente rispetto agli amministrati. In questi casi scatta una sorta di «immedesimazione organica», da intendere nella sua nozione sociologica, tra il dirigente condannato e l’ente, per cui i piani vengono confusi dalla opinione pubblica e vi è una caduta sia del senso di «appartenenza» che «dell’affidamento» della pubblica amministrazione. Per cui la sistematicità e la reiterazione degli episodi corruttivi hanno finito con l’accrescere la «perdita di prestigio» dell’ente, nel caso specifico la regione. Viene inoltre fatto richiamo al cosiddetto clamor fori, cioè all’impatto assai forte che si è avuto sui mass media; il che costituisce una sorta di circostanza aggravante. Altro elemento da considerare è la sorta di «pregiudizio» che si manifesta nei confronti degli altri dirigenti e dipendenti vicini a quello condannato, che sono per molti aspetti investiti anch’essi dal dubbio della loro partecipazione agli episodi di corruzione.
Il danno
La quantificazione del danno alla immagine non può che essere fatta in via equitativa e ricorrendo «alla dimensione della lesione dell’immagine, individuabile sulla base degli indicatori di natura oggettiva, soggettiva e sociale, individuati dalla giurisprudenza». Occorre tenere conto anche della posizione rivestita nell’ente, per cui il danno è maggiore tanto più rilevanti sono i compiti affidati. Su questa base la sentenza ha comminato una sanzione di 50.000 euro, oltre la rivalutazione monetaria, a fronte di appalti “sospetti” del valore di 250.000 euro.
Il Sole 24 Ore – 7 agosto 2015