Nell’ottobre 2013 l’economista del Fondo monetario internazionale Carlo Cottarelli viene chiamato dal governo Letta per curare una volta per tutte l’elefantiasi della nostra spesa pubblica. È un incarico suggestivo, quasi mitico: la chiamano spending review e impone un viaggio in Italia dove al posto di paesaggi si scovano numeri, invece di campanili si visitano bilanci, organigrammi, prestazioni.
L’economia passa per una «scienza triste», eppure tra i ricordi di Cottarelli ci scappa qualche spunto umoristico: appena insediato al ministero dell’Economia di via XX settembre, nota davanti al suo ufficio la classica scrivania affollata di commessi. Sembrano tanti candidati ideali al taglio di spesa e infatti dopo pochi giorni spariscono. Pare siano tornati in postazione da quando Cottarelli è rientrato a Washington con due anni di anticipo sulla scadenza del contratto. No, non l’hanno cacciato i commessi. Ma perché se n’è andato? L’ha licenziato Renzi? Ha gettato la spugna? Oggi l’ex commissario alla spending review ribadisce che ha riattraversato l’Atlantico per ragioni personali: «Mia moglie lavora alla Banca Mondiale e non poteva trasferirsi a Roma». La spiegazione non convince, ma è in linea con lo stile del personaggio: Cottarelli fa il bilancio di dodici mesi da «mister Forbici» maneggiando con levità il detonatore di tutti i populismi. Ci sono gli sprechi, certo, ma ci sono anche i tentativi di limitarli. E c’è soprattutto la complessità dell’analisi che non cerca mai la scorciatoia degli slogan.
Carlo Cottarelli da Cremona per un anno ha frequentato solo cose che non vanno. Ma l’Italia che tratteggia nel suo libro è migliore di come ce la raccontiamo. Lei ha osservato al microscopio il bilancio pubblico italiano. Cosa l’ha sorpresa di più?
«Le misure di contenimento della spesa che si sono succedute dal 2009. Nessuno le ha notate perché nel frattempo è sceso anche il Pii e non si sono potute ridurre le tasse. In sostanza è stato come correre su un tapis roulant: un grande sforzo per rimanere sul posto».
Si parla spesso della difficoltà di attuare riforme impopolari. Ma dal suo racconto sembra che le piccole lobby come i dipendenti della Camera sappiano difendersi meglio della massa dei cittadini.
«Il problema è che i risparmi che riguardano tutti sono in qualche modo imposti dai vincoli europei. Sulle piccole sacche di privilegio i numeri sono più piccoli e la pressione è minore. Eppure qualcosa si è fatto anche qui, pensi all’abolizione dei vitalizi per parlamentari e consiglieri regionali».
Lei ha mai avvertito il peso delle lobby?
«Ne ho visto le conseguenze. Per fare un esempio, le mie raccomandazioni in tema di riforma dell’Aci sono rimaste lettera morta».
Altri fronti su cui non ha potuto calare la scure?
«Le pensioni. Avrei voluto ridurre quel 15 per cento di assegni che superano il reddito medio dei lavoratori italiani ma non è stato possibile».
In sostanza lei raccomandava e nessuno metteva in pratica.
«Più che altro nessuno mi chiedeva il parere al momento di stilare i provvedimenti. Ma facevo il consulente e in Italia funziona cosi: se non hai potere di firma si dimenticano di tè».
Di cosa invece va particolarmente fiero?
«La riforma degli acquisti da parte dello Stato con il passaggio da 34 mila uffici titolari di spesa a 35 centrali d’acquisto. Una volta approvata definitivamente, i benefici per i bilanci pubblici saranno enormi: e non si tratta di risparmi una tantum ma di un vero cambiamento strutturale».
E le famose auto blu?
«Abbiamo imposto il limite di cinque vetture, ma per ora solo nelle sedi romane dei ministeri. Non siamo invece riusciti a incidere sulle dinamiche locali che portano le Asl a disporre di 700 auto blu e il ministero della Giustizia ad averne quasi mille assegnate ai vari tribunali».
Ma in definitiva quanto valgono i risparmi proposti dal suo ufficio?
«Nel 2015 si sono operati tagli per 12 miliardi di euro, che si riducono a 8 al netto delle maggiori spese. È pur sempre lo 0,5 per cento del Pii».
Tagli in tutte le direzioni?
«Non ho fatto raccomandazioni in tema di pubblica istruzione, ricerca e cultura, perché in questi campi spendiamo meno dei nostri partner europei. Non dico che non si siano sprechi anche qui, ma ogni euro risparmiato in cultura andrebbe reinvestito in cultura».
Che impressione le ha fatto tornare a lavorare in Italia? Cosa l’ha più delusa o sorpresa?
«Dopo venticinque anni d’America non ero più abituato alla continua invocazione dello Stato. Siamo sempre al piove governo ladro: l’individuo conta poco, è sempre qualcun altro a dover risolvere i problemi».
A proposito d’America, non sarà facile spiegare ai suoi colleghi di Washington perché la Corte costituzionale abbia deciso di rimpolpare le buste paga di pensionati e dipendenti pubblici.
«Effettivamente con queste due sentenze la Corte è andata in soccorso di chi era stato meno toccato dalla crisi. Ma interventi del genere si sono avuti anche in Grecia e Portogallo: i miei colleghi considerano un tipico fenomeno da Europa mediterranea».
In generale le sembra di aver lasciato il Paese più in salute?
«Sì, ma ancora troppo lento, bisogni insistere sulla strada delle riforme».
E se la richiamassero? «Con mia moglie l’accordo è che per due anni stiamo a Washington, poi si vedrà».
Quindi da appuntamento al 2016? «Non dipende solo da me».
Magari da un altro presidente de Consiglio. (Si mette a ridere).
Il Venerdì di Repubblica – 24 luglio 2015