di Maria Teresa Manuelli. In Italia e nel mondo crescono gli home restaurant, ossia case private che si aprono ad estranei invitati a cena a pagamento. Un modo conviviale per fare business secondo i principi della cosiddetta ‘sharing economy’. Chi lo ha detto, infatti, che la tecnologia crea solitudine? Cucinare invitando attraverso il web sconosciuti a casa propria sta diventando una vera moda alla portata di tutti. Non servono, infatti, particolari attrezzature, dotazioni o permessi per iniziare questa attività. Ma vediamo cosa dice la legge.
Quella degli home restaurant è un’attività finalizzata all’erogazione del servizio di ristorazione esercitato da persone fisiche all’interno delle proprie strutture abitative. Al momento non esiste una normativa che disciplini lo svolgimento dell’attività. Anche dal punto di vista fiscale, può essere equiparata a un’attività saltuaria d’impresa e il reddito derivante viene calcolato sottraendo dal totale delle ricevute emesse la somma delle spese documentate. Ovviamente, l’homer (ovvero, l’esercente) deve rilasciare ai clienti una ricevuta e documentare le spese sostenute per la preparazione della cena. Come a tutte le attività occasionali, si applica il limite annuale dei 5mila euro. Nel caso, invece, si dovesse superare tale soglia, e quindi da saltuaria diventasse attività abituale, è necessario aprire la partita Iva e iscriversi all’Inps, gestione commercio.
Il Mise frena gli entusiasmi
Semplice, vero? Non proprio. Un recente parere del Ministero dello sviluppo economico rischia di smontare gli entusiasmi di quanti si sono lanciati in questo business. Nella nota del 10 aprile 2015 del Mise, infatti, gli home restaurant vengono equiparati alle attività di somministrazione di alimenti e bevande, caricandoli così di un iter burocratico che, di fatto, metterebbe fuorilegge quelli già esistenti. «L’attività in discorso – precisa la risoluzione n. 50481 del ministero – anche se esercitata solo in alcuni giorni dedicati e tenuto conto che i soggetti che usufruiscono delle prestazioni sono in numero limitato, non può che essere classificata come un’attività di somministrazione di alimenti e bevande, in quanto anche se i prodotti vengono preparati e serviti in locali privati coincidenti con il domicilio del cuoco, essi rappresentano comunque locali attrezzati aperti alla clientela. Infatti, la fornitura di dette prestazioni comporta il pagamento di un corrispettivo, quindi, anche con l’innovativa modalità, l’attività si esplica quale attività economica in senso proprio». Di conseguenza, si dovrebbero applicare, secondo il Mise, le disposizioni di cui all’articolo 64, comma 7, del decreto legislativo 26 marzo 2010, n. 59 e s.m.i.: i soggetti che vogliono fare home restaurant, in buona sostanza, dovrebbero presentare la Scia o richiedere l’autorizzazione, se l’attività è svolta in zone tutelate, dovrebbero avere un piano Haccp, impianti e strutture a norma e via dicendo.
Fipe e amministrazioni contro
Si tratta di un parere, ma ormai diverse amministrazioni stanno varando ordinanze per estendere ai cuochi a domicilio le stesse regole degli esercizi commerciali e multare così gli homer sulla base della legge che disciplina la somministrazione di alimenti e bevande. E per combattere anche il pericolo di evasione fiscale. Il parere del Mise ha raccolto, ovviamente, il favore dei pubblici esercizi che non vedono di buon occhio la nuova possibile concorrenza, per giunta senza regole. «La risoluzione del ministero – commenta Enrico Stoppani, presidente di Fipe e vicepresidente Confcommercio – ripristina, senza spazio per dubbi e interpretazioni, le regole per una competizione leale e corretta: a parità di attività ci vuole parità di regole, di tributi e di obblighi. Non è, infatti, ammissibile, prima di tutto per garanzia e sicurezza dei cittadini, che ci possano essere modalità diverse di fare ristorazione: da un lato quelle soggette a norme e prescrizioni rigorose a tutela della qualità e della salute; dall’altro quelle senza vincoli, senza controlli, senza tasse, senza sicurezze igieniche. Il settore della ristorazione è sempre più attento e aperto all’innovazione e alla sperimentazione di nuove formule, come dimostrano le migliaia di imprese che nel nostro Paese si sono conquistate la fiducia e l’apprezzamento dei clienti. Ben vengano quindi nuove idee e nuovi approcci, purché siano sostenute da un corretto spirito imprenditoriale, da trasparenza e da lealtà verso i consumatori e verso lo Stato».
In elaborazione una legge dedicata agli home restaurant
Da più parti arriva quindi la richiesta di regole certe, per tutelare sia chi vuole mettersi alla prova con un home restaurant, sia per chi decide di recarvisi. E un disegno di legge ci sarebbe già, il Ddl 1271 del 27/02/2014 sull’Home Food presentato al Senato, ma mai discusso. Ora una petizione online su Change.org ne chiede l’approvazione in tempi brevi per mettere ordine e stabilire un distinguo tra le due attività.
Ecco cosa prevede il ddl:
• L’utilizzo della propria struttura abitativa, anche se in affitto, fino ad un massimo di due camere, per un massimo di venti coperti al giorno;
• I locali della struttura abitativa devono possedere i requisiti igienico-sanitari per l’uso abitativo previsti dalle leggi e dai regolamenti vigenti;
• L’esercizio dell’attività di home food non costituisce e non necessita alcun cambio di destinazione d’uso della struttura abitativa e comporta l’obbligo di adibirla ad abitazione personale;
• Ai fini dell’esercizio dell’home food il proprietario è tenuto a comunicare al comune competente l’inizio dell’attività, unitamente ad una relazione di asseveramento redatta da un tecnico abilitato;
• Non è necessaria l’iscrizione al registro esercenti il commercio;
• Il comune destinatario della comunicazione provvede ad effettuare apposito sopralluogo al fine di confermare l’idoneità della struttura abitativa all’esercizio dell’attività di home food;
• All’attività di home food si applica il regime fiscale previsto dalla normativa vigente per le attività saltuarie.
Ma il social eating ribadisce le differenze
Un provvedimento che avrebbe il vantaggio di valorizzare e tutelare il patrimonio enogastronomico locale e nazionale, creando anche nuove opportunità di reddito, in modo complementare rispetto ai ristoranti.
Intanto il ministero sta raccogliendo ulteriori informazioni anche attraverso incontri con le piattaforme di social eating, tipo Gnammo, che ci tengono a mantenere e ribadire le differenze con l’attività di home restaurant: gli eventi gastronomici casalinghi sono decisamente saltuari e più un’occasione di incontro che un’attività di ristorazione.
Food 24 – 8 luglio 2015