L’ultima, 65 milioni di anni fa, ha fatto sparire dalla faccia della Terra i dinosauri. Questa potrebbe spazzare via l’umanità: secondo uno studio condotto dalle Università di Stanford, Princeton e Berkeley con quella del Messico e pubblicato su Science Advances , siamo infatti entrati nella sesta estinzione di massa del Pianeta.
«Se non faremo nulla per fermare questo processo, per la vita ci vorranno milioni di anni per riprendersi — ha avvertito Gerardo Ceballos, uno degli autori — e la nostra specie sarà tra le prime a scomparire».
Dal 1990 a oggi sono andate perse per sempre 400 specie di vertebrati: gli scienziati hanno calcolato che prima dell’Antropocene (l’era geologica caratterizzate dalle trasformazioni imposte dagli esseri umani all’ecosistema globale) ci sarebbero voluti diecimila anni. Oggi il ritmo di estinzione è 114 più veloce del tasso «naturale».
La nuova fase
Una crisi comparabile a quella delle 5 estinzioni di massa che hanno investito il Pianeta nei suoi 4,3 miliardi di anni. Tra gli animali a rischio ci sono il 90% dei lemuri, le giraffe e, in Italia, la foca monaca e la salamandra. Ma anche un decimo delle specie europee di api (lo rivela il rapporto appena pubblicato dalla Commissione Ue): insetti fondamentali per l’alimentazione umana visto che da loro dipende l’impollinazione e quindi l’agricoltura.
«Non è la prima volta che gli scienziati lanciano l’allarme sull’estinzione di massa in corso, ma le ricerche precedenti si basavano su stime — spiega Marino Gatto, professore di Ecologia al Politecnico di Milano —. Questa invece ha adottato criteri molto stringenti e ha considerato solo le estinzioni accertate sulle 1,8 milioni di specie classificate al mondo (si ritiene che quelle esistenti siano invece 10 milioni). I risultati sono molto preoccupanti».
A determinare questa catastrofe annunciata è, manco a dirlo, l’intervento dell’uomo sulla natura. «Le cause, in ordine di importanza, sono i cambiamenti dell’uso del suolo che distruggono e frammentano gli habitat naturali (comprendono fenomeni diversi come la deforestazione e la costruzione di strade che fanno da barriere per gli animali), il riscaldamento globale con le variazioni climatiche che comporta — aggiunge Gatto — l’acidificazione degli oceani, l’introduzione di specie invasive da altri habitat». Anche quest’ultima, spesso è il risultato non intenzionale delle attività umane. «Basti pensare al mitilo zebra, una cozza che ha sostituito quelle locali nei grandi laghi Usa dopo essere arrivata dall’Europa con le acque di zavorra delle navi — afferma Gatto — oppure al piccolo celenterato (un organismo della famiglia delle meduse) del Nord America che ha distrutto la fauna del Mar Nero. Tutto questo significa perdita di biodiversità».
Sembra un fenomeno molto più innocuo della nube di detriti e polveri (forse originata da un meteorite) che nel Cretaceo oscurò il cielo e fece estinguere tre quarti degli animali terrestri. Non deve ingannare.
«Nelle nostre vite antropizzate dimentichiamo che la natura si basa su connessioni che si sostengono tra loro grazie a degli equilibri — spiega Stefano Caserini, climatologo del Policlinico di Milano —. L’uomo li sta alterando o spezzando e le tensioni originate dalle crisi dei cosiddetti “servizi ecosistemici” (cioè forniti dalla natura) metteranno a dura prova anche le nostre società».
Gli effetti sulla società
Stiamo già subendo gli effetti di una di quelle crisi: «Uno studio della Columbia University sostiene che tra le cause della guerra in Siria, che ha provocato milioni di vittime e profughi, c’è la siccità disastrosa del 2007-2010, dovuta a sua volta ai cambiamenti climatici: ha dato origine a una migrazione di massa di contadini verso le città siriane, contribuendo a destabilizzare il Paese. Cosa succederà a fine secolo quando i mari si alzeranno di un metro?», chiede Caserini.
«Se permetteremo ancora questo ritmo elevato di estinzione — scrivono gli studiosi americani — gli uomini saranno privati (in meno di tre generazioni) di molti dei benefici della biodiversità». C’è ancora una «finestra di opportunità» per «conservare le specie minacciate» e contrastare «perdita di habitat, sovrasfruttamento a fini economici e cambiamenti climatici», ma — avvertono — bisogna agire in fretta perché si riduce velocemente.
«Il tempo dei rinvii — concorda Caserini — è concluso».
Elena Tebano – Il Corriere della Sera – 21 giugno 2015