Un autentico flop: su 1 milione di lavoratori solo 567 (pari allo 0,0567%) hanno scelto di anticipare il «Trattamento di fine rapporto» (Tfr) in busta paga (che si chiama «Qu.ir», quota integrativa retribuzione). A dare i primi risultati dell’operazione, avviata con la legge di Stabilità 2015, è l’Osservatorio della Fondazione Consulenti del lavoro. A spingere la stragrande maggioranza a non incassare subito, secondo gli esperti, gli svantaggi sul piano fiscale.
Facciamo un passo indietro: la norma è stata attuata con il decreto n. 29 del 20 febbraio scorso firmato dal presidente del Consiglio, entrando in vigore il 3 aprile. A partire da questa data i lavoratori hanno la possibilità di scegliere se conservare il gruzzolo per ritrovarselo quando andranno in pensione, oppure se beneficiarne subito nello stipendio. Per indicare la strada preferita c’è tempo fino a giugno 2018, quando l’operazione si chiuderà. A poter scegliere sono solo lavoratori dipendenti ad esclusione di quelli agricoli, di quelli pubblici e dei lavoratori domestici: l’unico requisito per la richiesta è un’anzianità di almeno sei mesi presso lo stesso datore privato.
Comunque per decisione di Palazzo Chigi, la liquidazione in busta paga è ammessa dal mese successivo a quello di presentazione dell’istanza, in pratica da maggio. Per questo motivo sono partite nei giorni scorsi le elaborazioni degli stipendi per questo mese da parte dei consulenti del lavoro su 7 milioni di dipendenti impiegati in oltre 1 milione di aziende. Al momento sono stati esaminati i dati delle grandi imprese (con in media più di 500 dipendenti). Nei prossimi giorni le verifiche si sposteranno sulle micro società.
La Fondazione che raccoglie i consulenti ha tracciato l’identikit dei 567 lavoratori che hanno chiesto l’anticipo del Tfr: il 75% vive nel centro Nord, il 25% al Sud. La maggioranza (il 43%) è impegnata in commercio, terziario e turismo. Seguono, tra i settori più rappresentati, l’industria (18%), l’artigianato (12) e la piccola industria (9). A ulteriore dimostrazione che il carico fiscale abbia ricoperto un ruolo chiave, il 25% dei lavoratori guadagna fino a 20 mila euro, il 50% fino a 30 mila, il 18% fino a 40 mila e solo il 6% oltre i 40 mila. Inoltre solo il 10% dei cittadini che hanno voluto liquidare il Tfr nello stipendio lo hanno tolto da un fondo pensione integrativo. Negli altri casi il Tfr era destinato all’Inps (si tratta di lavoratori di aziende con più di 50 dipendenti).
Come si ricorderà, l’esecutivo ha stabilito per chi volesse il Tfr in busta paga un prelievo fiscale più severo: infatti la tassazione separata per il Tfr accantonato parte dal 23% e sale con la retribuzione superando il 34% per i redditi oltre i 94 mila euro. Altri parametri, invece, per la tassazione ordinaria che inizia sempre dal 23%, aliquota per chi guadagna fino a 15 mila euro, salendo al 27% fra i 20 mila e i 25 mila euro, al 38% fino a 50 mila euro, al 41% fino a 75 mila e infine al 43% sopra questa cifra. Quindi a chi ha lo stipendio più alto non conviene chiedere l’anticipo perché sarebbe costretto a pagare molte più tasse.
Gli stessi lavoratori coinvolti nel campione monitorato dalla Fondazione dei consulenti confermano questo pensiero: infatti il 60% degli intervistati lamenta che «la tassazione ordinaria è troppo penalizzante», il 16% dice che «togliere il Tfr dal fondo pensione crea un danno per la pensione», mentre un altro 20% di lavoratori «non ha ancora valutato adeguatamente cosa fare».
«Questo insuccesso è l’ennesima dimostrazione che la politica ha spesso la percezione delle esigenze del mondo del lavoro — commenta Marina Calderone, presidente del Consiglio della Fondazione — ma non è in stretto contatto con chi parla tutti i giorni con lavoratori e imprese. La bontà del provvedimento è apprezzabile, ma non la sua struttura tecnica poiché la tassazione applicata a questa misura ne ha determinato fino ad oggi il suo insuccesso». I consulenti «gestiscono circa 8 milioni di rapporti di lavoro — aggiunge Calderone — e sono a disposizione del governo per studiare preventivamente e in corso d’opera qualsiasi misura vada ad impattare sul mondo del lavoro».
Francesco Di Frischia – Il Corriere della Sera – 31 maggio 2015