Alessandro Barbera. Dipendesse solo da lui, rinvierebbe. Qualunque sarà la soluzione che si sceglierà, ci sarà chi masticherà amaro fino a quando non entrerà in cabina elettorale il 31 maggio. Il problema è che Bruxelles preme. La Commissione europea chiede che l’Italia individui al più presto una soluzione che chiarisca fin da subito quanto costerà al governo rispettare la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale il blocco delle rivalutazioni deciso nel 2011 dal governo Monti.
Renzi vorrebbe infischiarsene ma Padoan, consumato mediatore a quei tavoli, consiglia prudenza: «se non agiamo subito, addio flessibilità». Tradotto in cifre, significherebbe dover rinunciare a sei miliardi di margine che l’Europa è disposta a concederci in più rispetto ai rigidi paletti imposti da Maastricht. Così ieri sera, di rientro da Bruxelles, il ministro del Tesoro è atterrato direttamente a Palazzo Chigi per una lunga riunione con il premier e la squadra dei tecnici. Obiettivo: una soluzione a tappe, ma complessiva, da approvare nei prossimi giorni.
Il lettore pensionato non ci resti male, ma un decreto definito in tutti i suoi dettagli ancora non c’è. È però deciso lo schema: restituire entro l’estate gli arretrati, poi, con la legge di Stabilità, si provvederà a dare copertura agli effetti della sentenza pro-futuro. A meno di non stare nella forchetta più bassa interessata da quel blocco (fra i 1.400 e i 1.600 euro circa) è inutile sperare di ottenere la restituzione di tutta la mancata indicizzazione. Su questo ieri Renzi, intervistato da Repubblica tv, è stato chiarissimo: «La Corte non dice che dobbiamo pagare domani mattina tutto. Può darsi che la sentenza offra margini ma lo sapremo solo dopo aver verificato le carte».
Incontrando al Tesoro il leghista Salvini, il viceministro Morando gli ha consegnato le cifre precise di quanto costerebbe rispettare la sentenza alla lettera: poco più di otto miliardi di arretrati per il periodo 2012-2014, oltre tre miliardi all’anno da oggi in poi. Il messaggio del governo all’ormai leader dell’opposizione di centro-destra è che i soldi per accontentare tutti non ci sono, né ci saranno. La forchetta di pensionati che otterranno la restituzione della indicizzazione va dai 1.400 a (massimo) 3.200 euro. I primi avranno quasi tutto, man mano che si salirà di reddito la percentuale si ridurrà fino a diventare simbolica. Per pagare gli arretrati al Tesoro hanno a disposizione circa tre miliardi e mezzo. Metà di questi arriveranno dal cosiddetto tesoretto, l’altra metà da quel che il governo sta incassando con il provvedimento per il rientro dei capitali evasi all’estero, la cosiddetta «voluntary disclosure». A meno di non sforare la regola del tre per cento, di più non si può fare. «Il governo deve mantenere un margine di sicurezza sul deficit di quest’anno», si legge nelle raccomandazioni all’Italia della Commissione europea. Il Documento di economia e finanza promette per la fine dell’anno un deficit già al 2,6 per cento del prodotto interno lordo. Solo la legge di Stabilità, in autunno, deciderà cosa fare degli aumenti che la sentenza promette per il futuro. Qui la faccenda è ancora più complicata, perché per coprire quell’onere occorre trovare una copertura permanente.
Per Renzi si tratta di un passaggio delicatissimo e non preventivato. I suoi piani prevedevano una campagna elettorale in discesa, e due miliardi per finanziare un piano anti-povertà. Lui stesso ammette che la decisione della Corte è stata un fulmine a ciel sereno: «Abbiamo appreso della sentenza il 30 aprile dalle agenzie di stampa, un buon viatico per il primo maggio. Io mi ero tenuto un tesoretto, avevamo studiato alcune misure, me le sono dovute rimangiare. Abbiamo un po’ masticato amaro, ma ci siamo vincolati. E ora ci prendiamo il tempo necessario per evitare di fare errori». Se prevarrà la prudenza di Padoan, il tempo non sarà comunque sufficiente a scavallare la scadenza elettorale. A Palazzo Chigi c’è chi ancora non esclude un ripensamento di Renzi, deciso a far valere le ragioni della politica sulla diplomazia. Si tratta però di una strada piena di ostacoli: il rinvio lo costringerebbe comunque ad un decreto per differire gli effetti della sentenza (non ben visto al Quirinale) e ad entrare in rotta di collisione con Bruxelles. L’ultima parola – dicono al Tesoro – spetta in ogni caso a lui.
La Stampa – 13 maggio 2015