Nel nostro Paese ci sono centinaia di siti “Natura 2000” per difendere specie rare o a rischio estinzione. Ma la loro tutela, affidata agli enti locali, è spesso un optional. Tanto da essere perfino teatro di esercitazioni militari non autorizzate. E ora Bruxelles, che ha aperto un’inchiesta, minaccia sanzioni
Le ex cave di argilla “Danesi”, a metà strada fra Brescia e Lodi, sono uno spettacolo quasi unico nel loro genere: una dozzina di laghetti all’interno di un’area protetta (la riserva Naviglio di Melotta), così particolari da essere stati inseriti dall’Unione europea nei siti “Natura 2000” , istituiti per difendere habitat naturali e specie particolarmente rare o a rischio. Zone non a caso rigidamente tutelate in cui le attività umane sono escluse. Eppure in questo piccolo angolo di paradiso la Provincia di Cremona, ente gestore del sito, su richiesta della proprietà ha autorizzato la pesca sportiva, prima vietata. A Monticiano, nel senese, l’anno scorso è stata accordata invece la costruzione di una centrale termoelettrica a biomasse. A pochi chilometri di distanza c’è la riserva naturale dell’Alto Merse, che potrebbe essere deteriorata dagli inquinanti atmosferici. Ma è impossibile saperlo: una valutazione di incidenza, come prevede la normativa comunitaria, non è mai stata effettuata.
C’è tutto un campionario di pressappochismo, inefficienze e sostanziale indifferenza nelle accuse rivolte all’Italia dalla Commissione europea, che nei mesi scorsi ha aperto un’inchiesta sul mancato rispetto delle aree protette. Un carteggio che va avanti dall’estate fra Roma e Bruxelles e che ha avuto una svolta nei giorni scorsi, quando a Palazzo Chigi è arrivata una richiesta di informazioni supplementari. Con una serie di prescrizioni (21 in tutto) ben precise: in caso contrario, nei confronti del nostro Paese sarà aperta l’ennesima procedura di infrazione (attualmente siamo a quota 93).
IN BOCCA AL LUPO
La cifra della vicenda la dà un particolare piccolo ma a suo modo esemplificativo: quello dell’Abruzzo, che ha un terzo del territorio protetto. La Commissione europea dedica un intero paragrafo a quella che si fregia del titolo di “regione più verde d’Europa”: niente trasparenza nelle procedure che devono valutare l’incidenza ambientale, strutture tecniche inadeguate, assenza di comunicazione fra i vali livelli amministrativi e perfino il mancato coinvolgimento delle realtà che gestiscono le riserve naturali.
Può così accadere che a giudicare gli interventi nelle zone limitrofe siano comuni che hanno a malapena il segretario comunale. O che a valutare le eventuali ripercussioni su specie tutelate come il lupo appenninico o l’orso bruno marsicano sia un piccolo municipio di poche centinaia di abitanti, mentre l’Ente parco nazionale viene solo sentito per un parere consultivo.
I casi citati nel rapporto sono numerosi. E a volte hanno dell’incredibile. Come il progetto di ampliamento dell’aeroporto di Cagliari, a due passi dall’habitat protetto dove vive una specie rara come il pollo sultano, e che dovrebbe essere realizzato – si legge nel documento – “sulla base di cartografie errate e ignorando anche le prescrizioni della Regione Sardegna sulla necessità di porre in essere delle fasce di rispetto”. Oppure il piano di gestione dei rifiuti del Lazio e gli impianti eolici sulle pendici meridionali del monte Mutria, nel casertano, che non sono nemmeno stati sottoposto a una valutazione d’incidenza.
MEA CULPA
Le 12 pagine con cui la Ue riepiloga le contestazioni ed elenca alcune delle principali violazioni dimostrano la leggerezza con cui l’Italia salvaguarda il suo patrimonio naturalistico. Una fortuna immensa, visto che i 2.589 siti sottoposti a tutela coprono complessivamente quasi un quinto del territorio nazionale e quasi il 4 per cento di quello marino. Gran parte degli enti locali, ai quali la legge affida la gestione e il controllo delle aree, non sembrano tuttavia curarsene granché.
Nella sua richiesta di chiarimenti la Commissione va giù dura: interventi autorizzati senza considerare l’impatto sulle zone protette, altri che hanno ricevuto “parere favorevole senza certezza che il progetto fosse privo di effetti pregiudizievoli”, in alcuni casi alcuni addirittura “approvati nonostante l’accertata incidenza negativa”. Insomma, “in Italia vi è un problema di natura sistematica nell’applicazione” delle direttiva europea sull’ambiente. E lo conferma il fatto che varie violazioni hanno portato “spesso al degrado dei siti Natura 2000”. Di qui l’invito a intervenire presso le regioni “al fine di impedire un ulteriore degrado”.
Ma non solo. La lista delle misure da assumere mostra infatti quale sia il livello di gravità delle inadempienze italiane: solo per citarne alcune, procedure per nulla trasparenti e non accessibili in rete, comuni senza competenze designati come enti gestori, necessità di “rafforzamento del ruolo del Corpo forestale dello Stato che il governo intende sopprimere), amministratori nei confronti dei quali non è prevista alcuna responsabilità penale, malgrado dal 2011 chi distrugge o deteriora un habitat all’interno di un sito protetto possa essere punito con l’arresto fino a 18 mesi e una multa di almeno 3 mila euro.
Le autorità italiane, davanti a contestazioni così specifiche, non hanno potuto che ammettere la colpa. Con un elenco di cause che fanno tornare alla mente patologie croniche della nostra burocrazia: studi di incidenza di qualità inappropriata, spesso redatti da personale non preparato, valutati da uffici con un organico insufficiente e peraltro dalle competenze frammentate.
SIGNORSÌ
Ma del resto, perché meravigliarsi se gli stessi organi dello Stato, come le forze armate, sono i primi a non rispettare la legge? “Sulla base di informazioni disponibili – scrive la Commissione europea citando un rapporto di Legambiente sulle servitù militari – sembrerebbe che esercitazioni militari, anche a fuoco, vengano effettuate nei siti Natura 2000 in diverse regioni italiane (Friuli Venezia Giulia, Puglia, Emilia Romagna, Abruzzo, Sardegna, Sicilia, ecc.) in assenza di studi e valutazioni di incidenza e spesso senza autorizzazione degli enti gestori dei siti”.
E ovviamente, se non si chiede permesso, tanto meno si può sperare che ci si preoccupi delle specie protette. Tanto che gli addestramenti si svolgerebbero “senza tener conto dei cicli biologici, come il periodo di riproduzione, e in generale senza considerare le necessità di conservazione della biodiversità”. Una guerra, per quanto finta, val bene una riserva naturale.
L’Espresso – 5 maggio 2015