L’Istat: ad aprile la deflazione è stata azzerata. Una buona notizia sia per i conti pubblici dei Paesi con un alto debito come il nostro, sia per l’economia reale. Le Borse riprendono fiato ma la battaglia per la ripresa dei consumi è ancora lunga
Evviva, i prezzi tornano a salire. Sembra un paradosso, ma ieri mattina i mercati finanziari hanno ritrovato il sorriso dopo il mercoledì nero alla notizia che l’inflazione era tornata in terreno positivo, o quantomeno a quota zero, nei 19 Paesi della zona euro. Ma perché l’aumento della lista della spesa dovrebbe essere una buona notizia? Fino a pochi anni fa lo spauracchio era la crescita dell’inflazione che erodeva i risparmi e gli stipendi. Che cosa è cambiato rispetto ad allora?
Prima di rispondere vediamo i numeri. In Italia l’indice nazionale dei prezzi al consumo è risalito ieri a quota zero rispetto all’aprile 2014, contro un ribasso dello 0,1% a marzo. Si è fermata così il passo da gambero dei prezzi italiani, in linea con gli obiettivi di Mario Draghi, deciso a sradicare il rischio deflazione dall’Eurozona con una massiccia iniezione di liquidità (60 miliardi al mese) a suon di acquisti di titoli di Stato e simili oggi nel portafoglio delle banche.
Si liberano così quattrini per finanziare gli investimenti, innescando, si spera, un circuito virtuoso: le banche prestano più soldi alle imprese ed alle famiglie (vedi mutui) destinati ad alimentare l’economia reale. La maggiore offerta di denaro, se tutto andrà per il verso giusto, genererà nuova offerta, ovvero più quattrini in circolo per dare ossigeno all’economia.
Non sarà un processo facile o rapido perché, come continua a ripetere Draghi «i tassi di inflazione sono attesi cominciare ad aumentare gradualmente verso la fine dell’anno» verso l’1,6%, finalmente vicino all’obiettivo dela banca centrale, poco sotto il 2%.
Un circuito virtuoso, opposto alla spirale viziosa in cui si stava avvitando l’economia italiana: la discesa dei prezzi, infatti, è la punta dell’iceberg della deflazione, ovvero di una congiuntura in cui cadono gli investimenti perché prevale l’idea che sia più conveniente rinviare gli acquisti visto che le merci costeranno domani meno di oggi. Calano così i posti di lavoro ed il reddito delle famiglie. Sale invece la propensione al risparmio, in risposta all’incertezza sul futuro.
Insomma, la caduta dell’inflazione non invoglia a nuovi acquisti. E si spiega così perché John Maynard Keynes ammoniva negli anni Trenta che «in economia non fa bene essere virtuosi» né alle famiglie, né agli Stati. In questo modo, tra l’altro, si spiega perché la Borsa italiana ha risposto prima e di più al primo cenno di ritorno dei prezzi in terreno positivo: l’inflazione dà una mano ai debitori. E o Stato italiano, si sa, con i suoi 2 mila miliardi abbondanti di debito, è senz’altro un grande debitore che può sperare di ridurre la sua esposizione solo nel caso di un’inflazione che aumenti il valore nominale del prodotto interno lordo.
Fin qui la regola maestra. Ma le cose andranno proprio così? E che effetti avrà il movimento sui risparmi e sui mutui? In realtà, l’esperienza degli Stati Uniti e del Giappone dimostra che non è affatto facile uscire dalla deflazione con l’arma del Quantitative Easing. A Tokyo l’asticella dei prezzi resta sotto il 2 per cento nonostante acquisti formidabili che hanno fatto salire il debito pubblico al 226% del pil. Negli Stati Uniti la ripresa avanza al piccolo trotto: l’inflazione, che è il frutto della ripresa, è ancora merce rara nell’economia globale. Ma dopo i forti rialzi da gennaio ad oggi dei valori dei titoli di Stato (e discesa dei rendimenti) è probabile che il ribasso dei tassi in Europa si fermi per un po’, magari a vantaggio del dollaro. Difficile fare buoni affari, dunque, comprando Bot o Btp. E val la pena di puntare ancora sui mutui a tasso variabile, perché la battaglia per far risalire i prezzi (e l’economia) promette di essere ancora lunga.
Libero – 2 maggio 2015