di Giuseppe Franco Ferrari. Nel disegno di legge del governo sulla «Riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», uno dei punti più controversi riguarda la riforma della dirigenza pubblica. Si tratta di una legge delega, che fissa quindi solo principi (alcuni addirittura definiti «eventuali»), ma la tendenza che si indica è comunque evidente.
Lo scopo è di unificare per quanto possibile i ruoli della dirigenza, statale e parastatale, con la sola esclusione di quella scolastica; di omogeneizzare gli accessi e i sistemi di valutazione; di ridurre le garanzie di stabilità tipiche del pubblico impiego; di rendere i dirigenti più direttamente dipendenti dal ceto politico. In complesso, il dirigente risulterà titolare di minori garanzie di permanenza sul posto, sarà più frequentemente valutato, più mobile, revocabile anche in costanza di incarico e più responsabile sia di risultati che di specifici provvedimenti.
I precedenti
Molti di questi principi non rappresentano una novità: si pensi, per la dirigenza degli enti locali, alla legge 142/90, poi ripresa dal Testo unico degli enti locali, e per quella statale al decreto legislativo 29/93. Il tentativo di alleggerire la presenza della politica nella gestione amministrativa – limitandola all’indirizzo politico-amministrativo, alla fissazione degli obiettivi e alla verifica dei risultati – risale ai primi anni ’90 (a fronte dei fatti corruttivi che coinvolgevano i partiti, parve necessario ridurre la sfera di influenza della politica). Questo approccio è stato poi razionalizzato dalle due leggi Bassanini (59 e 127 del 1997). Con il Testo unico del 2000, peraltro, era stata avviata una parziale correzione della rigorosa separazione tra politica e amministrazione, e ciò perché fenomeni di malcostume avevano investito anche la dirigenza.
Più «fiduciarietà»
Qual è, dunque, la portata innovativa del Ddl Madia? Innanzi tutto, l’elemento di fiduciarietà si dilata e si rafforza: il dirigente viene incaricato per un triennio con nomina essenzialmente politica; è revocabile in corso di mandato; è destinato a ruotare; può essere espunto dai ruoli dopo un dato periodo di assenza di incarichi. Se non si è in presenza di un vero spoils system, la direzione è imboccata, benché in modo alquanto strisciante. La posizione del dirigente diventerà decisamente onerosa. Superato il difficile scoglio iniziale della nomina, il dirigente rimarrà in carica per un breve periodo; provenendo da altra carica dovrà mettersi rapidamente in sintonia con le funzioni, perché sarà valutato alla fine del primo anno in base ai risultati; resterà nell’ufficio al massimo per un secondo mandato; potrà essere revocato e parcheggiato in un ruolo in cui attende nuove nomine fino a eventuale decadenza. Si auspica che tra settore privato e dirigenza pubblica vi sia massima osmosi, ma da un lato la congiuntura di mercato non è favorevole a una facile circolazione del personale qualificato; dall’altro i limiti retributivi del pubblico potrebbero non invogliare i migliori dirigenti privati. Certamente il dirigente sarà responsabilizzato da un regime fortemente connotato di precarietà.
Più responsabilità
Peraltro, nella legislazione in tema di azione amministrativa, come quella sugli appalti, aumenterà la responsabilizzazione. Basti ricordare, ad esempio, che l’opinione pubblica reclama che, per evitare la crescita successiva del costo delle opere, le gare a massimo ribasso lascino il posto a quelle a offerta economicamente più vantaggiosa, in cui la discrezionalità della stazione appaltante è maggiore e quindi più esposto è il dirigente, come responsabile del procedimento o come presidente di commissione. Oppure, si parla di ridurre gli automatismi valutativi della qualità delle imprese che partecipano a gare di evidenza pubblica, con la creazione di fattori di rating, cioè di punteggi aggiuntivi per la qualità; ma anche questo aumenta la discrezionalità dei valutatori. Insomma, il futuro sembra richiedere al dirigente una visione completamente nuova. Dovrà accettare l’instabilità ed essere pronto al passaggio al privato; dovrà ricollocarsi ruotando sugli incarichi e ricorrere a una sorta di formazione permanente; dovrà essere preparato a lasciare il ruolo anche a prescindere da suoi demeriti, a esempio per mancanza di rapporti che favoriscano nuove nomine, si caricherà di responsabilità con l’aumento della discrezionalità, sarà sempre più esposto agli interventi di una Corte dei conti molto attiva, non dovrà precludersi contatti con il privato, dove potrebbe doversi collocare non per sua scelta. In sintesi, dal Ddl Madia e dal trend normativo precedente si ricava una figura di dirigente, si direbbe, post-moderna: ultraflessibile, capace di formarsi on the job, versato sia nei rapporti con la politica che con il mercato, non timoroso del rischio e sensibile alle istanze dei cittadini-consumatori di azione amministrativa. Nulla di più lontano dal grand commis francese, preparato specificamente in modo massiccio e raffinato per restare nei quadri a lungo, tanto da dover pagare per riscattarsi. Più vicino semmai alla mobilità del modello americano, pur in presenza di condizioni istituzionali e di mercato molto diverse. La domanda semmai è un’altra. Il personale oggi disponibile è in grado di reggere un urto del genere? Certo è che riforme coraggiose comportano salti di qualità. Ma la medicina potente deve poter essere sopportata dal paziente.
Il Sole 24 Ore – 28 aprile 2015