di Francesco de Augustini, dal Corriere.it. Sappiamo praticamente tutto delle uova che compriamo in guscio, ma praticamente nulla di quelle che troviamo dentro pasta all’uovo, biscotti, dolci, produzioni industriali e persino dentro tramezzini, pasta fresca e altri prodotti di bar e ristoranti che usano uova pastorizzate.
Grazie alla normativa europea sull’etichettatura, dal 2004 il timbro apposto su ogni singolo uovo in guscio indica: modalità di produzione (3 in gabbia, 2 a terra, 1 all’aperto, 0 biologiche), il paese di origine (IT per l’Italia) e persino comune e codice dello stabilimento. Anche sulle scatole è obbligatorio precisare a chiare lettere la modalità di allevamento. Una trasparenza che stona con l’assenza totale di informazioni sull’origine delle materie prime di tutti gli altri prodotti che hanno come componente principale le uova, per i quali nessuna indicazione è obbligatoria.
Importazione
– L’Italia è uno dei principali produttori di uova in Europa. In negozi e supermercati è quasi impossibile trovare uova fresche che provengano dall’estero, che forse i consumatori sarebbero riluttanti a comprare. Eppure secondo i dati Eurostat ogni anno importiamo oltre 50 milioni di tonnellate di uova e ovoprodotti solo dalla Polonia, quasi 20 milioni dalla Spagna, oltre 6 milioni dall’Olanda, 5,7 milioni dalla Romania, 3,7 dalla Francia, 3,2 dalla Slovacchia.
La normativa sul benessere animali
– La vicenda delle importazioni di uova in Italia si lega a doppio filo con un’altra normativa Ue che ha fatto molto discutere negli ultimi anni il settore uova: quella sul benessere animale. Prima grande legge comunitaria sul benessere animale, per effetto di tale normativa entro il 2012 tutti i produttori di uova Ue hanno dovuto abbandonare le gabbie «convenzionali» usate negli allevamenti intensivi, accusate di far vivere ogni capo in uno spazio grande quanto un foglio A4. Se in una stesura iniziale la normativa bandiva del tutto l’allevamento in gabbie, ha poi finito per ammettere le cosiddette «gabbie arricchite»: 75 cm quadrati a capo invece che 55, con l’aggiunta di alcuni «accessori», come un’area di plastica per il “nido” dove deporre le uova, un bastone di ferro, un gratta-unghie. Dopo una serie di proroghe e una sanzione comunitaria piovuta sull’Italia lo scorso anno, i produttori italiani si sono imbarcati in complessi lavori di ristrutturazione degli stabilimenti per montare le nuove gabbie. «Alcuni si sono adeguati cambiando i capannoni in allevamenti a terra, qualcuno ha chiuso, la maggior parte ha adottato le nuove gabbie», racconta Daniele Arcioni, responsabile per il benessere animale del Corpo Forestale di Perugia. «È stato un passaggio economicamente impegnativo per i produttori, che hanno dovuto buttare via tutto e rimettere tutto nuovo», aggiunge.
Quale benessere
– La normativa sul benessere sembra però mettere tutti d’accordo solo su un aspetto, quello di non aver portato sensibili miglioramenti proprio sul fronte benessere. «Alla fine restano sempre allevamenti in batteria», commenta lo stesso Arcioni, cui fanno eco tanti allevatori della filiera che hanno sopportato a denti stretti il provvedimento. Secondo Annamaria Pisapia, portavoce per l’Italia di Compassion in world farming (Ciwf), ong per il benessere animale tra i promotori originari della normativa, «inizialmente le gabbie arricchite non erano contemplate. Poi in sede Europea fu inserita questa ‘deroga’». Roberto Bennati della Lav definisce senza mezzi termini «un inganno» la normativa: «Come possiamo garantire il becchettare a 4 o 5 metri di altezza, dove dovremmo mettere della lettiera invece mettiamo un tappetino di plastica? (…) È un sistema deliberato come compromesso dalla politica ma che non ha niente a che vedere con il benessere degli animali, con le caratteristiche etologiche degli animali».
Effetti collaterali
– La normativa ha avuto invece alcuni effetti collaterali. Nel 2012 in Italia tantissimi produttori hanno chiuso i capannoni per far spazio ai lavori di adeguamento, creando vuoti di produzione. Vuoti che sono stati colmati con maggiori flussi di import, soprattutto dagli attraenti mercati emergenti dell’Est Europa. Una volta tornati a regime, i produttori si sono trovati a far fronte da una parte a maggiori costi, per ripagare le spese sostenute nell’adeguamento, e dall’altra ai prezzi concorrenziali dell’Est. Secondo Antonio Mengoni dell’azienda «Ovo Fresco San Martino», sono in tanti i marchi italiani che importano perché oggi in Italia «il costo delle uova arriva a 1,05 o 1,06 euro al chilo. Dall’estero con 90 o 95 centesimi al chilo ti arrivano». Da notare che la pressione di prezzi più bassi significa maggiore import di uova, minore competitività, ma anche il rischio che i produttori siano spinti a tagliare il più possibile i costi. Un circolo vizioso che può facilmente avere ricadute negative magari sulla qualità dei prodotti o persino paradossalmente proprio sul benessere animale, ad esempio con la tentazione di aumentare dove possibile la densità di animali nelle gabbie arricchite. Infine la scelta dei produttori italiani di adeguarsi alla normativa puntando tutto o quasi sulle gabbie arricchite, espone il nostro Paese al rischio di trovarsi impreparato di fronte ad una eventuale nuova normativa ancora più stringente. «In alcuni paesi del nord Europa, come la Germania», sostiene Pisapia di Ciwf, «non esistono più né gabbie convenzionali né arricchite. C’è una minima percentuale di gabbie voliera, molto più grandi, e il resto è tutto allevamento a terra». Secondo Bennati della Lav, addirittura «oggi in molti paesi d’Europa si sta discutendo di una nuova modifica della direttiva che vada nella direzione di rendere obbligatori solo sistemi alternativi, quindi allevamento all’aperto e allevamento a terra».
Questione di costi
– Dal 2012 ad oggi, insieme ai produttori storici come Francia, Italia, Spagna o Olanda, hanno fatto la loro ascesa sul panorama UE paesi come la Polonia e la Romania, entrambi secondo i dati Assoavi tra i principali otto produttori europei. La maggiore competitività di questi paesi è dovuta a vari fattori, tra cui il costo minore dei mangimi, essendo forti produttori di cereali, gli ingenti finanziamenti strutturali dell’Ue, il minor costo della manodopera e un sistema di permessi e controlli più «rilassato». Sul fronte benessere animale, ad esempio, in Polonia «un veterinario non è in grado di controllare la maggior parte dei capi. Anche il numero degli animali in ogni gabbia è verificato a campione». Ad affermarlo un veterinario polacco ad un giornalista del settimanale Wprost, lamentando un numero insufficiente di colleghi per presidiare gli allevamenti.
Il paradosso delle vecchie gabbie
– Alcuni produttori italiani sostengono che tantissime vecchie gabbie dismesse siano state comprate e rimontate da produttori dell’Est Europa. «Ci risulta che le vecchie gabbie che utilizzavano i nostri allevatori siano state date ai Paesi dell’Est», sostiene Massimo Chiovoloni, veterinario della Asl di Perugia. «E noi adesso ci prendiamo le uova». Quello che è certo è che le vecchie gabbie dismesse in Italia siano state spessissimo vendute a Paesi extra Ue. «Alcuni ci hanno detto che le vecchie gabbie andavano in paesi come la Tunisia o il Marocco, dove non ci sono queste leggi e gli impianti possono comunque essere utilizzati», ha confermato Daniele Arcioni del Corpo Forestale. La questione è comunque paradossale, considerato che per gli ovoprodotti non esiste un divieto di import da paesi terzi: «Si può importare anche dalla Cina», afferma Anna Maldini di Assoavi, lamentando come il gigante asiatico proibisca invece l’import dall’Italia di uova e ovoprodotti per un presunto rischio di influenza aviaria nel nostro paese.
Uova ucraine
– Un esempio ancor più paradossale, tornando nell’Est Europa, è l’Ucraina. Risale a settembre del 2014 la decisione comunitaria di permettere le importazioni nei Paesi comunitari al colosso Ucraino Imperovo, un gigante da 23 milioni di galline distribuite in 19 allevamenti, senza l’obbligo di adeguarsi alla normativa sulle gabbie arricchite. Il gigante euroasiatico segue le sorti di Ovostar Union, altra azienda ucraina ammessa all’export verso l’Ue dal 2014. Si tratta dei primi passi di un accordo di libero scambio con il Paese ex sovietico, che entrerà a regime dal primo gennaio del 2016.
Corriere.it – 12 febbraio 2015