il segno positivo per i consumi alimentari, dopo l’andamento piatto del 2014 e il -3,1 del 2013. L’anno che si sta aprendo prefigura alcuni segnali di ripresa: consumi +0,3% (dopo una riduzione che è stata di 14 punti negli ultimi sei anni), export +5,5%, produzione +1,1%, con un fatturato stimato a 134 miliardi, un 1,5% in più rispetto ai 132 dell’anno scorso.
Ma è una ripresa fragile, ha sottolineato il presidente di Federalimentare, Luigi Scordamaglia, presentando ieri, in Confindustria, il bilancio 2014 e le previsioni 2015. «L’errore peggiore sarebbe darla per scontata: se non adeguatamente sostenuta la ripresa potrebbe essere stroncata sul nascere». Ci sono fattori positivi esogeni come il calo dell’euro, del prezzo del petrolio, il miglioramento del credito per le famiglie. Ma non basta: occorre una riduzione della pressione fiscale. E soprattutto «bisogna bloccare misure autopunitive come l’aumento progressivo dell’Iva, 3,5 punti nei prossimi tre anni, che affosserebbe i consumi e questa timida ripresa. Invece occorre maggiore attenzione verso un settore chiave del manifatturiero», ha aggiunto Scordamaglia, sottolineando che in questo 2015 si terrà anche l’Expo, occasione importante per diffondere il nostro modello di alimentazione e le nostre eccellenze.
L’alimentare conta 58mila imprese, 385mila sono gli addetti diretti ed altri 850mila sono impiegati nella produzione agricola. Rappresenta il secondo comparto del manifatturiero italiano. Dall’inizio della crisi sono stati persi circa 6mila addetti, contro i 200mila del metalmeccanico, e la produzione è calata di 3 punti a fronte di un calo medio di 24 punti del manifatturiero. A riprova che il settore è solido ed ha tenuto. Da questo governo, ha spiegato il presidente di Federalimentare, c’è stata una particolare attenzione: per la prima volta è stato costituito un tavolo con le imprese alimentari, è stata apprezzata anche la pausa di riflessione sul reverse charge sulla grande distribuzione, che avrebbe penalizzato le imprese alimentari per 8 miliardi di euro.
L’obiettivo è di spingere l’export arrivando a 50 miliardi di euro entro la fine del decennio e aumentando l’occupazione di 100mila unità, ha detto Scordamaglia, che ieri ha giudicato «inaccettabile» la chiusura della commissione Ue verso ogni possibile alleggerimento dell’embargo russo. Il dato di quest’anno è positivo, superiore al 3,1% del 2014, ma inferiore al 5,8% del 2013 e al 7% del 2012. Inoltre anche se il peso delle esportazioni sul fatturato dell’alimentare è aumentato in dieci anni di quasi il 50%, passando dal 14% del 2004 al 20,5% del 2014, l’Italia è ancora lontana da competitor come la Spagna (22%), la Francia (28%) e soprattutto la Germania (32%). Ci sono buone prospettive sui mercati emergenti, come la Cina, ma il grande protagonista del 2015 saranno gli Stati Uniti, verso i quali partirà a breve una campagna di comunicazione cui sta lavorando il governo con la Federalimentare indirizzata in particolare sulle barriere non tariffarie, sulla contraffazione e sull’italian sounding. «Solo un prodotto su otto venduto come italiano è veramente made in Italy», ha detto Scordamaglia. Su questi temi il governo si è impegnato molto, «bisogna però superare l’inerzia di una certa burocrazia che rischia di compromettere il rilancio del made in Italy. Vanno evitate anche fughe normative in avanti rispetto alle regole europee». Un esempio per tutti, ha detto Scordamaglia, il succo d’arancia al 20% nelle aranciate. E occorre continuare sulla strada delle riforme: «il Jobs Act prevede alcuni elementi per noi molto positivi, va attuato senza diluizioni».
Il Sole 24 Ore – 23 gennaio 2015