Mauro Marè. La spesa pensionistica italiana in percentuale del Prodotto interno lordo è la più elevata dell’area Ue e Ocse, di poco superiore al 16 per cento. Nonostante ciò, l’Italia è il Paese che ha effettuato il maggior numero di riforme, più di sei, dal 1992 a oggi, che hanno rivisto i criteri di funzionamento e affrontato i rischi crescenti sul piano demografico ed economico: passaggio al sistema contributivo, innalzamento dell’età pensionabile, revisione dell’indicizzazione. Queste riforme (forse troppe) hanno prodotto indubbi risultati concreti.
Le previsioni ufficiali, anche se basate su stime forse ottimiste, mostrano una riduzione significativa della spesa di circa 1,5 punti percentuali di Pil nei prossimi quindici anni e un aumento tra il 2030 e il 2045 fino al 15,7%.
La Commissione europea, nel suo Fiscal Sustainability Report del 2012, stimando il costo dell’invecchiamento per la sostenibilità dei sistemi di welfare ha mostrato che l’Italia presenta un sistema fiscalmente più «responsabile» di molti altri Paesi Ue, anzi il più sostenibile nel lungo termine. I dati mostrano un fiscal gap del Belgio del 7,4% del Pil, del 9,7% e del 5,9% per Lussemburgo e Olanda; Francia e Germania sono intorno all’1,5%. L’Italia è l’unico Paese che mostra un avanzo apprezzabile — del 2,3 del Pil! E sono stime effettuate dalla Commissione, quindi hanno un valore ufficiale.
Questa valutazione si basa sul cosiddetto infinite-horizon fiscal gap : ovvero il valore attuale del totale degli impegni futuri di spesa previsti (incluso il servizio del debito), al netto del totale delle entrate future.
Una recente stima di Larry Kotlikoff della Boston University, presentata alla Mefop Lecture tenutasi a dicembre al Ministero dell’Economia ha evidenziato che, considerando i saldi fiscali in un’ottica di lungo periodo e sul piano dei conti generazionali, l’Italia mostra una situazione nel complesso positiva: nonostante il livello della spesa attuale, la nostra posizione è più sostenibile di molti altri Paesi proprio per le molte riforme fatte e per l’avanzo primario raggiunto — più sostenibile di quella della Germania stessa o di altri campioni europei! Naturalmente, se si terrà fede alle riforme fatte e se esse verranno opportunamente adeguate al mutare dello scenario economico e demografico. Quindi se l’Ue agisse considerando il fiscal gap e non il disavanzo annuale di bilancio, il nostro Paese avrebbe una capacità di manovra diversa…
D’altro canto, la necessaria azione di revisione della spesa pubblica che il governo si promette di effettuare, difficilmente non potrà non riguardare anche quella pensionistica; quindi ci dobbiamo chiedere se vi siano ancora aggiustamenti che sarebbe opportuno effettuare.
Il sistema contributivo italiano è ancora in parte incompleto e si discosta dalla sua versione «pura». Il meccanismo di indicizzazione è migliorabile e i coefficienti applicati non sono «perfettamente contributivi» e non differenziati per genere e coorte.
Parrebbe poi opportuno un allungamento del periodo di calcolo (media mobile) a dieci anni per evitare il «paradosso» di rendimenti negativi. Ma soprattutto il conflitto e l’equità generazionale sarà la questione centrale dei prossimi anni, ed essa non è stata ancora adeguatamente affrontata. Un’altra misura è quella di dare maggiore flessibilità nell’uscita verso la pensione, ovviamente con un aggiustamento attuariale.
Una buona direzione è anche quella, suggerita di recente, di anticipare i trattamenti pensionistici per chi perde il lavoro tra i 60-62 e i 66 anni — mentre prima di quella età anagrafica funzionerebbero i meccanismi tradizionali (Aspi).
Naturalmente ciò funziona sul piano dell’equità generazionale se si dice la verità e si spiega per bene che questa misura avrebbe la natura di un prestito, di un’anticipazione, che produrrebbe una riduzione dei trattamenti unitari una volta in pensione. Ciò potrebbe avere effetti positivi anche sulla finanza pubblica.
L’altra questione «molto di moda» è quella di un prelievo sulle pensioni retributive, se al di sopra di una certa soglia. Se condivisibile sul piano dell’equità generazionale, essa è di difficile applicazione, dato il numero enorme di regimi esistenti: si considerano anche i contributi figurativi e le sottocontribuzioni? E le fiscalizzazioni effettuate? E che si fa per i pubblici e gli autonomi, per i quali non esistono i dati? E soprattutto quale sarebbe il limite dell’importo se si vuole avere un gettito consistente? E come verrebbe usato il gettito e per chi — per evitare le obiezioni della Corte Costituzionale?
Infine, andrebbero ripensati gli stimoli per la previdenza complementare di cui non c’è meno, ma più bisogno — l’aumento dell’imposizione andrebbe riconsiderato, così come l’uso del Tfr. I sistemi a capitalizzazione infatti sono gli unici che di per sé contengono una forte componente di equità generazionale: le coorti si pagano direttamente parte delle pensioni, e non le scaricano sulle generazioni future!
Il Sole 24 ore – 8 gennaio 2015