Che tra Tito Boeri, presidente dell’Inps (Istituto nazionale di previdenza sociale) e il governo pentastellato non corresse buon sangue era cosa nota. Ma ipotizzare una sua prossima uscita di scena, specie dopo quanto dichiarato ieri a Venezia, alla Scuola San Giovanni Evangelista in occasione della festa per i 120 anni dell’Istituto da lui presieduto, non è affatto un azzardo.
Stavolta non sono i migranti il nocciolo della questione. Stavolta è la manovra finanziaria e, nello specifico, il reddito di cittadinanza e le pensioni. Ma cosa ha detto Boeri? Essendo a Venezia, ha provato a calare nella realtà veneta i due provvedimenti più significativi del Def (Documento economico finanziario) del governo. E ha sentenziato: «Il reddito di cittadinanza è fortemente sbilanciato al Sud. Credo che non più del 2-3 per cento delle risorse andrà a regioni come il Veneto che conta circa l’8-9 per cento della popolazione italiana». In pratica le «briciole» dei 10 miliardi euro che la componente pentastellata di governo sostiene essere stata destinata per i 780 euro al mese per i poveri senza lavoro.
Subito dopo Boeri è entrato nel merito della questione con un’altra dichiarazione destinata a far discutere: «Non è trasferendo risorse da chi lavora a chi non lavora che si sostiene la crescita. L’esperienza del Veneto insegna che la crescita si sostiene con più lavoro e più alta produttività. Un percorso di successo è alleggerire gli oneri su chi lavora. Muoversi nella direzione opposta, triplicando l’afflusso di chi va in pensione e di chi non lavora, significa colpire la fiscalità generale».
Se vogliamo, si tratta di considerazioni in linea con quanto dichiarato dagli industriali veneti prima dell’assemblea di Confindustria Vicenza e dell’«apertura» del presidente nazionale Vincenzo Boccia nei confronti della Lega, quale ancora di salvezza per arginare la «deriva» dell’assistenzialismo grillino. «Non c’è spazio per la crescita», avevano tuonato gli imprenditori. Aggiungendo: «E c’è il rischio concreto che i sacrifici fatti per uscire dalla crisi vengano vanificati». Boeri ha poi affrontato il nodo delle pensioni, per le quali l’esecutivo ha stanziato 6 miliardi di euro, comprensivi di «quota 100» e flat tax per le partite Iva. E anche qui la sua posizione nei confronti del governo è tranchant. «Non è aumentando la spesa pensionistica – ha detto – che si può far crescere l’economia del nostro Paese. È esattamente il contrario. L’aumento dello spread porta alla riduzione dei rendimenti di molti fondi pensione e ciò significa pensioni minori per molti lavoratori e, in prospettiva, una situazione di maggiore difficoltà per la crescita, con minori possibilità di finanziamenti e liquidità per le imprese». Scendendo nel dettaglio, Boeri ha parlato della ormai celebre «quota 100», smontando la teoria che questo provvedimento andrebbe a favore del Nord rispetto al resto d’Italia. «Bisogna essere trasparenti – le parole di Boeri – sul profilo distributivo dei provvedimenti che si intendono adottare. Si dice spesso che la quota 100 andrà a beneficio del Nord. In realtà più del 40 per cento delle risorse per questa misura andrà ai pensionati del pubblico impiego». Che, come è risaputo, per la maggior parte è concentrata al centro-sud.
Ma è soprattutto sulla ratio della manovra che Boeri ha da ridire: «Non è detto che se uno va in pensione venga subito sostituito. E anche se fosse, avrebbe comunque un reddito basso e, di riflesso, una minor contribuzione. La storia insegna che più prepensionamenti significa più disoccupazione giovanile. Un esempio? Torno al settore pubblico: chi uscirà, almeno nel breve, non verrà sostituito». Insomma, una critica a tutto tondo destinata a far tornare d’attualità le parole del luglio scorso che il vicepremier Matteo Salvini aveva destinato a Boeri: «C’è tanto da cambiare all’Inps».
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