La battaglia sulla manovra l’ha fatto sparire dai radar, ma sul rinnovo contrattuale dei dirigenti pubblici il quadro appare dominato dallo stallo.
Dopo il riscaldamento pre-pausa estiva, la macchina del confronto sembra arenata e l’agenda non prevede incontri più o meno decisivi a stretto giro. I tempi insomma si allungano, e gli unici segnali (negativi) arrivano dalla sanità dove i medici hanno aperto lo stato di agitazione annunciando «una o più» giornate di sciopero. Il tutto mentre il triennio contrattuale sta per scadere e l’ulteriore rinnovo per tutto il pubblico impiego faticherà parecchio a farsi strada nelle griglie della manovra. Intanto, perlatro, la Funzione pubblica ha iniziato a lavorare a una legge delega sulla riforma della dirigenza (si veda Il Sole 24 Ore del 4 settembre) per affrontare il terreno su cui era inciampata la legge Madia.
Ed è proprio questo complicato intreccio politico a spiegare i tempi lunghi su cui viaggia il nuovo contratto dei dirigenti, a partire dalle Funzioni centrali che come sempre devono svolgere il ruolo di apripista anche per le altre aree. Il rinnovo di un contratto che nasce con un governo e deve concludersi sotto un altro esecutivo, per di più di segno diametralmente opposto al precedente, non può avere un cammino facile. E nel caso specifico la partita torna a incagliarsi intorno al nodo delicato degli incarichi.
Sul piano delle procedure, ad accendere la macchina è stato l’atto di indirizzo firmato a inizio maggio dall’allora ministro Madia, in cui si chiedeva ad Aran e sindacati di mettersi d’accordo su una disciplina finalizzata all’obiettivo esplicito di «limitare il ricorso all’outsourcing». Per questa ragione, si prevedeva di offrire i posti che via via si liberassero attraverso interpelli estesi «a tutte le amministrazioni dell’area», con un sistema in grado di garantire «la più ampia trasparenza nelle procedure».
Nelle ultime settimane la Funzione pubblica ora guidata da Giulia Bongiorno è tornata sul tema, ma con indicazioni diverse. Oltre a chiedere ad Aran di accelerare con le trattative, Palazzo Vidoni ha ricordato che le regole del Testo unico sul rapporto di lavoro dei dirigenti sono inderogabili, e quindi vanno rispettate senza strappi. Ma il Testo unico, all’articolo 40, sottrae alla contrattazione proprio la «materia del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali».
Un bel rebus. Anche perché il confronto in punta di diritto muove interessi delicati proprio nel cuore della macchina pubblica, quella messa sotto processo dai vertici politici a Cinque Stelle in queste calde settimane pre-manovra. L’idea di rendere “contendibili” i posti di vertice delle amministrazioni viene portata avanti nel nome della selezione, per evitare quello che sarebbe una sorta di “diritto al posto” non scritto ma riconosciuto nei fatti agli interni. Ma a chi si deve aprire la “contesa”? Solo a chi è già nei ruoli della Pa o anche agli apporti esterni? La questione si intreccia in modo evidente con il tema caldo dei rapporti di forza fra dirigenti e politica, che in queste settimane è esploso in tutta la sua forza. E una soluzione, al momento, non si intravede.
Ma riscrivere il contratto alla vigilia di una riforma annunciata è complicato anche sul piano economico. Tra gli obiettivi annunciati c’è, ancora una volta, quello di intervenire su obiettivi, valutazione e premi, nel tentativo di costruire incentivi credibili, selettivi e ancorati a parametri solidi.
Obiettivo non nuovo, certo, ma in questo quadro è difficile concentrare troppe risorse sulla quota fissa della retribuzione, con una mossa che suonerebbe come una sorta di ipoteca preventiva sui nuovi progetti di riforma.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore