di Elvira Serra. Poco importa che abbia dovuto cedere anche James Bond. Perché comunque il microchip impiantato tra il pollice e l’indice non concede in automatico la licenza di uccidere (quella resta riservata ai «dipendenti» con doppio zero). È semmai un modo, nemmeno l’ultimo, di controllare — pardon — di ottimizzare le prestazioni sul posto di lavoro. I settantadue impiegati di Three Square Market che l’anno scorso hanno volontariamente accolto sottopelle il «circuito integrato», grande come un chicco di riso, durante un evento chiamato «Chip Party», oggi con un movimento della mano riescono ad aprire porte di sicurezza, avviare computer e acquistare caffè al distributore automatico. Il che sarebbe pure divertente, non fosse per il particolare che nel database dell’azienda resta impresso per sempre il numero delle bevande consumate, il tempo trascorso all’interno di un certo ufficio e quello speso davanti al pc. Altro che «Apriti, sesamo!».
Viene quasi nostalgia del Megadirettore Galattico, l’incubo di Ugo Fantozzi, leggendo il pezzo pubblicato dal Guardian sui nuovi strumenti di controllo sul lavoro. È di qualche giorno fa, per esempio, la notizia che in Cina alcune imprese stanno dotando gli operai di berretti (o caschi) che monitorano le loro emozioni: rabbia, benessere, rilassamento. «Serve per garantire maggiore sicurezza e intervenire su quelli più stressati proponendo, quando è il caso, una giornata di riposo», ha spiegato al South China Morning Post Jin Jia, psicologa cognitiva dell’università di Ningbo. A nessuno dei top manager delle aziende che stanno testando questi dispositivi viene in mente che l’algoritmo con cui si rilevano i picchi emotivi possa mettere in fila serenità e rilassamento eccessivi, fino a denunciare, magari, un eventuale lassismo. Per loro conta il risultato. E il risultato, per la State Grid Electric Power che fornisce energia elettrica a tutta la provincia dello Zhejiang, sono due miliardi di yuan in più di fatturato da quando è partita la «sperimentazione», nel 2014: oltre 260 milioni di euro.
In Svezia la Epicenter ha impiantato nei suoi dipendenti (con adesione volontaria) un microchip che serve, tra le altre cose, ad azionare le stampanti. «Il vantaggio più grande è la comodità», aveva spiegato il ceo Patrick Mesterton. Già nel 2013 la British Petroleum aveva dotato i lavoratori di un braccialetto che monitora la frequenza cardiaca, dentro e fuori gli uffici dell’azienda, giorno e notte: per tutelarne la salute. Una cosa che in Italia non potrebbe mai capitare. «Prevenire e proteggere la salute del lavoratore è sì un obbligo di legge del datore, ma non può farlo direttamente lui, si deve affidare a un medico terzo», spiega l’avvocato giuslavorista Tommaso Targa, dello Studio Trifirò & Partners.
Tre mesi fa finì su tutti i giornali il nuovo brevetto di Amazon per un dispositivo che velocizza la ricerca dei prodotti stoccati nei magazzini attraverso delle vibrazioni. «Si tratta di un nuovo tipo di scanner che permette di lavorare con le mani libere, senza usare palmari», ha replicato la multinazionale per mettere un argine alle critiche. Ma non poteva che essere accolta con fulmini e saette la proposta di un braccialetto elettronico che per definizione fa pensare ai domiciliari.
«In generale tutte queste iniziative vanno nella direzione del controllo, sono mosse dall’ansia. Chi deve controllare migliaia di persone tende ad andare sotto stress e a perdere di vista il tema della fiducia», interviene Andrea Castiello D’Antonio, psicologo del lavoro e consulente aziendale. «Ma già nel momento in cui l’azienda offre al dipendente come strumento di lavoro un telefonino, un pc o un’auto, si crea un tacito accordo: il vantaggio è anche un costo». Per il lavoratore.
Il Corriere della Sera – 15 maggio 2018