Coinvolge anche i primari l’emorragia di medici ospedalieri che dal pubblico scappano nel privato, convenzionato e puro. Solo negli ultimi mesi, in Veneto, sono già 51. Scelta anticipata da un noto direttore di Ortopedia e Traumatologia, il dottor Sergio Candiotto, tre anni fa passato alla casa di cura di Abano Terme dopo 10 al lavoro all’ospedale di Dolo e otto al Sant’Antonio di Padova. «Da 38 anni mi presento in reparto alle 7 del mattino — racconta — e ho regalato al servizio pubblico due terzi delle mie ferie, perchè credo in ciò che faccio. Anche se sono per l’alternanza, principio liberale e democratico che bisognerebbe far valere in tutti gli enti pubblici, perché è importante rimettersi in discussione. Credo nel Sistema sanitario nazionale, molto generoso, pagato dal popolo ma penalizzato da una programmazione inadeguata. Mi spiegate perchè, se arrivo in sala operatoria alle 7, posso iniziare il primo intervento solo alle 9.15? E perchè tra un’operazione e l’altra c’è un intervallo di un’ora e mezza, contro i 20 minuti del privato, che tra l’altro consente l’attività chirurgica anche al sabato e al pomeriggio? Ecco cosa sta fiaccando la classe medica — prosegue Candiotto — la mancanza di efficienza e di organizzazione, che allora si vanno a cercare altrove. Ulteriore motivo di malessere, generato da una burocrazia elefantiaca, è la difficoltà del primario a relazionarsi con i vertici: nel privato il contatto e la risposta sono immediati. Ed è un peccato, perchè il pubblico le potenzialità le avrebbe, ma dev’essere più attento a intercettare le esigenze del personale, che non si sente più gratificato, e dei pazienti».
Proprio il rapporto con i malati è l’ennesima causa di scontento. «Una volta la sanità girava attorno alla fiducia tra dottore e paziente, oggi completamente snaturata da leggi che hanno trasformato il malato in utente e poi in cliente e l’ospedale in un’azienda che redige il piano industriale — conferma Candiotto —. E così un legame storico ha perso il pathos che lo caratterizzava, si è inasprito, creando una crisi identitaria al camice bianco, che si ritrae». Poi ci sono l’aspetto economico («gli stipendi sono fermi da dieci anni e non rispecchiano il carico di mansioni e responsabilità odierne, anche gestionali», denunciano i sindacati) e un sottorganico cronico. Legato al numero chiuso a Medicina, che per di più laurea ogni anno 7mila dottori invece dei 10mila previsti, consentendo solo a 4500 l’accesso alle Scuole di specialità e quindi l’assunzione. «Nel 2023 mancheranno 23mila tra ospedalieri e dottori di famiglia — chiude Candiotto — e non potranno essere rimpiazzati dai 10mila oggi rimasti fuori dalle scuole di specializzazione. Inoltre il 76% degli studenti di Medicina sono donne, che per conciliare lavoro e famiglia non scelgono alcune specialità, come la chirurgia».
«Mancano i giovani ai quali trasmettere quello che noi, ultracinquantenni, abbiamo imparato — conviene Giampiero Avruscio, portavoce dell’Anpo (primari) —. Vanno all’estero anche perchè qui, nonostante la Regione affermi il contrario, concorsi non se ne fanno. E’ una fase mai vista, che alimenta la fuga nel privato pure delle figure apicali, dato che in ospedale non c’è più possibilità di carriera. E temo che alla politica convenga pagare ai convenzionati le prestazioni, cedendo loro il costo del personale. Finirà che gli ospedali pubblici copriranno solo una parte di attività, come i trapianti, e sarà la fine del sistema garantista».
«Non è vero che alla Regione non interessa il sistema pubblico — replica Fabrizio Boron, presidente della commissione Sanità — altrimenti non investirebbe 150 milioni l’anno in tecnologia. Se c’è carenza di operatori e se gli ospedali arrancano è colpa dei paletti imposti dal governo: dobbiamo rispettare un tetto di spesa per il personale, che entro il 2020 deve scendere di altri 20 milioni di euro; il blocco del turnover ci obbliga a mantenere lo stesso organico del 2014 meno un 1,4%; aumentano le voci dei Livelli essenziali di assistenza ma non sale in proporzione il Fondo sanitario. Quanto agli stipendi dei medici — rivela Boron — il governo firmerà l’accordo con i sindacati, ma a pagare saranno le Regioni, in attesa di un rimborso che non si sa quando arriverà. L’unica soluzione è l’autonomia». Il Veneto ha chiesto: più soldi da Roma; retribuzioni adeguate per i camici bianchi; un maggior uso dei farmaci generici, con conseguente risparmio di milioni di euro.
Il Corriere del Veneto –3 aprile 2018