L’ 80% dei nuovi posti di lavoro creati nel 2017 è a termine. Otto contratti su dieci firmati l’anno passato non sono a tutele crescenti, l’ex tempo indeterminato così codificato dal Jobs Act. Ma ha una data di scadenza. E una durata, nella stragrande maggioranza dei casi, inferiore ai dodici mesi. A tre anni dunque dalla riforma del mercato del lavoro varata dal governo Renzi la stabilità è ancora un miraggio. Il lavoro a termine e i fast jobs sono prevalenti.
In termini assoluti – ci spiega l’Istat con i dati definitivi sul 2017 usciti ieri – parliamo di 2 milioni e 723 mila occupati a termine, il 12% in più del 2016 e il 14% del totale di chi lavora in Italia. Percentuale in linea con l’Europa. Sebbene da noi il ritmo di crescita di questa tipologia di lavoratori sia più sostenuto, visto che all’inizio del secolo eravamo al 9- 10% contro una media Ue al 12%. Se dunque il ricorso al lavoro breve è una condizione generale, in Italia sembra assumere caratteri specifici. Il confronto è ancora più schiacciante se operato con Germania, Francia e Spagna. Nell’ultimo decennio (2007-2017) – rivela un’elaborazione ad hoc dell’istituto di ricerca Ref – gli occupati a termine sono aumentati di un quarto in Italia, mentre in Spagna calavano di un quarto e in Germania del 3%, in Francia salivano ma solo del 16%. Nella legislatura appena chiusa ( 2013- 2017) – tre governi a guida Pd: Letta, Renzi, Gentiloni – questi lavoratori a scadenza sono cresciuti del 24%, nonostante incentivi e abolizione dell’articolo 18. Solo la Spagna ha fatto peggio (+28%). La Germania si è tenuta a un livello fisiologico (+ 1,7%), la Francia ad uno accettabile (+ 13%). Impressiona la fulminea ascesa dei contratti di durata inferiore all’anno: + 29% nell’Italia del Jobs Act. Contro un +23% della Spagna (che pure ha riformato il mercato del lavoro nell’ottica della maggiore flessibilità). Ma in Francia siamo a un + 3% e in Germania i mini-jobs addirittura arretrano: -3%.
Cosa succede allora? « Gli occupati sono tornati al livello pre-crisi, nonostante un Pil sotto di cinque punti rispetto al 2008», analizza Fedele De Novellis, partner di Ref Ricerche. « Un fatto positivo. Ma ci chiediamo se con l’avanzare della ripresa, trainata soprattutto da part-time e contratti a tempo, si ricomporranno anche le anomalie. E se dunque aumenteranno le ore lavorate e le stabilizzazioni».
Difficile dirlo ora, ma di sicuro il fenomeno viene da lontano. Lo dimostra un recente studio, pubblicato sulla rivista Economia& Lavoro, che prende in esame un campione di 330 mila contratti stipulati nel settore manifatturiero in quattro regioni italiane – Lombardia, Veneto, Campania e Puglia – tra primo gennaio 2009 e 30 settembre 2015, a Jobs Act approvato, compresi i decreti attuativi. « Il risultato è sbalorditivo», racconta Paola Potestio, docente di Economia Industriale all’università Roma Tre e coautrice della ricerca. «In sette anni, la metà dei lavoratori esaminati ha avuto solo contratti a tempo determinato, con punte del 70% tra le donne campane e 75% in Puglia. Un tempo straordinariamente lungo. Nello stesso periodo, registriamo una percentuale esigua di passaggi dal tempo determinato a quello indeterminato nella stessa impresa: appena il 3-4% nelle due regioni del Nord, solo il 5-6% in quelle meridionali. E infine i tempi di chiusura dei contratti a tempo indeterminato: il 50-60% è terminato entro 3-5 anni in Lombardia e Veneto, addirittura il 70% al Sud».
« Questo significa due cose » , spiega ancora Potestio. «Il ponte tra precarietà e stabilità è fragile, i passaggi sono molto limitati. E anche la stabilità contrattuale, quando viene conquistata, è relativa. Un problema rilevante che esisteva prima del Jobs Act, una buona riforma da cui non si può prescindere. E che sussiste ancora. A dimostrazione che le discussioni sul ripristino dell’articolo 18 sono assolutamente sterili».
Repubblica – 14 marzo 2018