La carne da una parte, la componentistica auto dall’altra. Se c’è uno scontro di interessi, sull’accordo di libero scambio in corso di definizione tra la Ue e i quattro Paesi del Mercosur, è tutto racchiuso fra questi due schieramenti. I negoziati per il trattato riprendono questa settimana ad Asuncion, in Paraguay, e dentro l’Unione europea si risentono le voci degli allevatori francesi, irlandesi ma anche italiani contrari all’aumento delle quote di carne sudamericana autorizzata a varcare i confini europei a dazi agevolati o addirittura zero.
Brindano, al contrario, i produttori di auto e la meccanica strumentale: il Brasile è tra i Paesi che ha introdotto il maggior numero di provvedimenti discriminatori nei confronti delle nostre imprese. Meccanica e automotive, del resto, sono due segmenti pesanti, che rappresentano per esempio il 40% di tutto l’export italiano verso il Brasile. Mentre le esportazioni agroalimentari dell’Europa verso tutto il Mercosur non rappresentano che il 5% del totale dell’export europeo. Se questi sono i pesi in campo, è facile capire da che parte pende Bruxelles al tavolo negoziale.
Ci sono sempre settori che vincono e settori che perdono, quando si firma un accordo di libero scambio. «L’importante – sostiene Alessandro Terzulli, capo economista della Sace – è che l’Unione europea porti avanti una politica commerciale che sia equa e bilanciata nel suo complesso». Insomma una volta può favorire un Paese e un settore, una volta un altro, ma l’importante è che nell’insieme ogni Paese e ogni settore possa dire, nel mondo, di averci guadagnato qualcosa.
È effettivamente così? L’impressione è che, comunque la si guardi, la bilancia penda sempre a sfavore del comparto agroalimentare. Un comparto che proprio ieri ha dimostrato di essere determinante per l’export continentale: secondo i dati resi noti dalla Commissione europea, infatti, il comparto ha venduto all’estero prodotti per 137,9 miliardi di euro, il 5,1% in più rispetto al 2016.
Prendiamo allora i principali accordi di libero scambio in corso di negoziazione o in procinto di entrare in vigore in questo 2018 nella Ue. Sono cinque: con il Mercosur, con il Canada (già entrato in vigore in via provvisoria), con il Vietnam (diventerà operativo quest’anno), con il Giappone, e con Singapore (questi ultimi due in corso di ratifica). «Da questi accordi il mondo dei servizi e anche la meccanica hanno sempre da guadagnare», ammette Terzulli. Ma se apriamo il capitolo agroalimentare, tutto diventa più complesso. Gli stessi produttori di carne italiani che vedono come fumo negli occhi l’intesa con il Mercosur, per esempio, possono dirsi invece soddisfatti dell’intesa con il Giappone, dalla quale hanno ottenuto significative riduzioni di dazi e tariffe. Per loro anche l’accordo con il Vietnam si è concluso in maniera positiva: Hanoi liberalizzerà in sette anni le importazioni dalla Ue di carni suine, e in tre quelle di carni bovine.
La stessa questione delle quote a dazio zero garantite dalla Ue alle carni sudamericane può essere vista da un’altra angolatura: «Danneggiano gli allevatori europei, è vero – spiega Terzulli – ma avvantaggiano la filiera produttiva degli insaccati. L’Italia per esempio importa dal Brasile buona parte della carne necessaria a produrre la bresaola: sarebbe impensabile che i salumifici contassero solo sulla resa dei manzi allevati in Valtellina per fare abbastanza bresaola per tutti». Prodotto realizzato dal saper fare italiano, materia prima importata: è la catena globale del valore, bellezza.
I produttori italiani di riso del Piemonte e dell’Emilia Romagna, segnalano le Coldiretti locali, temono il riso a dazio zero in arrivo dal Vietnam, al quale l’Europa con l’accordo di libero scambio ha alzato le quote. I produttori italiani di formaggi, dal canto loro, all’intesa con il Vietnam applaudono, perché liberalizzerà il mercato caseario nel giro di tre anni. In compenso, sollevano gli scudi contro l’accordo con il Giappone e contro il Ceta canadese. Nel primo caso, ricorda la Coldiretti, sono state protette solo 18 denominazioni italiane su 292 riconosciute dalla Ue. Sono rimasti fuori big come il parmigiano, il provolone e l’asiago: di questi, a Tokyo, potranno essere vendute tutte le versioni contraffatte del caso. Non che il Giappone sia un produttore di falsi formaggi italiani, però li importa. Dall’Australia o dalla Nuova Zelanda, per esempio.
Anche nel caso dell’intesa col Canada solo 42 Dop italiane vengono adeguatamente protette: un passo avanti numerico rispetto al Giappone, certo, ma non abbastanza, sostengono le associazioni del comparto agroalimentare. «Di tutti gli ultimi accordi siglati dall’Europa – spiega Terzulli – il Ceta è senz’altro il più evoluto, perché si occupa anche di questioni come la risoluzione delle controversie o le certificazioni sanitarie. Eppure, sul fronte della tutela delle Dop dalle contraffazioni, appare inadempiente. Ecco – ammette Terzulli – se c’è un punto sul quale Bruxelles mi pare faccia pendere troppo spesso la bilancia a sfavore delle imprese europee, è proprio quello della tutela dei prodotti Dop. Non solo quelli italiani: vale anche nel caso del Roquefort francese o del Queso Manchego».
Micaela Cappellini – Il Sole 24 Ore – 20 febbraio 2018