Maurizio Tropeano. Non si ferma il calo produttivo del mais italiano che dura da una decina di anni e che l’anno scorso ha fatto registrare un’annata tra le più difficile caratterizzata da un’estate particolarmente calda e siccitosa, con condizioni di elevato e continuo stress idrico e termico per la coltura. «Le ripercussioni negative in termini di resa sono stati evidenti: – 6,7% rispetto alla media degli ultimi 5 anni e addirittura – 15% rispetto al 2016, che era stata invece un’ottima annata per il mais», spiegano i ricercatori del Crea, il Consiglio per la ricerca e l’analisi dell’economia agraria.
Venerdì scorso a Bergamo si sono svolti quelli che potremmo considerare gli stati generali del settore per cercare di trovare le soluzioni per invertire questo trend perché in caso contrario c’è il rischio di mettere in pericolo il patrimonio delle denominazioni di origine protette. Il motivo? «Il mais – sottolineano i ricercatori – è una delle nostre grandi produzioni, per l’elevata potenzialità produttiva della coltura e per l’alto valore nutritivo dei mangimi». Questo cereale è infatti la base per l’alimentazione di tutto il patrimonio zootecnico del Paese «imprescindibile quindi per quasi tutte le produzioni Dop simbolo del made in Italy alimentare nel mondo (basti pensare ai nostri salumi e ai nostri formaggi) che, infatti, ne prevedono l’utilizzo, per almeno il 50% sotto forma di mangime nei disciplinari di produzioni».
Che fare, allora? Il tema del calo produttivo è strettamente legato anche al fatto che anno dopo anno aumentano le importazioni di mais dall’estero e per cercare di mettere un freno a questa duplice tendenza è necessario cercare di risolvere le criticità del settore messe a punto in un documento di un gruppo di lavoro coordinato dal Crea. Le criticità individuate spaziano dal controllo degli stress biotici (parassiti per esempio) e abiotici (siccità), all’implementazione delle rese e redditività della coltura, alla scelta varietale, al ripristino dell’auto-approvvigionamento nazionale, alla valorizzazione della qualità, alla fruibilità dei risultati della ricerca e sperimentazione a favore della filiera.
Il progetto rete di qualità cereali promosso dal Crea «nelle sue articolazioni ha avviato un percorso sicuramente utile e interessante», spiegano le principali organizzazioni agricole sottolineando, però, la necessità che «non rimanga solo accademico». «C’è da dire – evidenzia Ivan Nardone, responsabile Cia per le grandi colture – che la situazione del mais in Italia è grave da tempo, una condizione creatasi nell’indifferenza generale. Ora siamo in una fase dove sono indispensabili investimenti pubblici e privati nella ricerca per evitare un irrimediabile tracollo produttivo nei prossimi anni».
Cesare Soldi, presidente di Fno Cereali foraggieri di Confagricoltura, fa un passo in più: «E’ necessario un forte investimento nel supportare e promuovere innovazioni agronomiche mirate ad aumentare le rese e la qualità a partire dagli aspetti sanitari». E servirebbe anche un «deciso sostegno alla rete di sperimentazione pubblica e la modernizzazione dei centri di stoccaggio». Per Patrizia Marcellini dell’Alleanza Coop Agroalimentari serve un impegno corale «per far si che il reddito dei maiscoltori torni ad essere soddisfacente altrimenti a pagarne le conseguenze bon sarà solo la coltura del mais ma anche le filiere collegate».
La Stampa – 28 gennaio 2018