L’accelerata vissuta dal contratto delle «funzioni centrali» con il via libera nel consiglio dei ministri di venerdì, che punta a portare in busta paga gli arretrati a febbraio e gli aumenti da marzo, non prelude a una dinamica analoga negli altri comparti.
Per gli enti territoriali e la sanità lo sbarco delle tabelle con i numeri sui tavoli delle trattative aspetta gli atti di indirizzo integrativi, che i comitati di settore devono inviare per rendere utilizzabili le risorse liberate dall’ultima manovra. Risorse liberate ma non finanziate, però, perché governo e Parlamento non hanno voluto (e potuto) derogare alla regola classica che in questi comparti mette a carico dei bilanci locali e del fondo sanitario il costo degli aumenti. Di qui uno stallo politico che promette di far attendere ancora qualche settimana prima dell’entrata nel vivo del confronto sulle cifre. A differenza di quanto accaduto per i ministeriali e per i dipendenti di agenzie fiscali ed enti pubblici non economici, insomma, la vigilia elettorale rischia di complicare il quadro invece di semplificarlo. Soprattutto dalle parti della sanità.
Per i 501mila dipendenti di Regioni ed enti locali i costi dei rinnovi viaggiano intorno ai 650 milioni di euro all’anno. Questi soldi andranno trovati nei bilanci dei singoli enti, che dovranno gestire anche l’ampliamento del turn over e l’avvio del piano straordinario di stabilizzazione (20mila interessati solo nei Comuni secondo le stime dell’Anci). Ma il problema più delicato è rappresentato dalle cifre pro-capite. I livelli retributivi degli enti territoriali, più bassi rispetto a quelli che si incontrano nell’amministrazione centrale, prospettano un rinnovo contrattuale da 75 euro lordi medi al mese. L’intesa fra governo e sindacati del 30 novembre 2016 parlava però di aumenti medi da 85 euro per tutta la Pubblica amministrazione, e l’indicazione esplicita della cifra in quell’accordo alimenta ovviamente le pressioni sindacali. Difficile, però, ipotizzare che nel comparto si vada oltre il 3,48% di aumento della retribuzione complessiva previsto per gli altri.
Un problema aggiuntivo è rappresentato dalla garanzia per chi oggi riceve il bonus da 80 euro e rischierebbe di perderne una parte per effetto dei rinnovi contrattuali. Nella Pa centrale la questione è stata affrontata con i 21-25 euro al mese aggiuntivi (l’«elemento perequativo») introdotti per il periodo marzo-dicembre 2018, e lo stesso meccanismo dovrebbe essere replicato negli altri comparti. Questo, però, significa di fatto scaricare sui conti locali anche una parte delle tutele del bonus Renzi, ipotesi che fa storcere il naso a più di un amministratore locale. Paradossalmente, un aiuto nel risolvere l’incognita potrebbe arrivare dai tempi un po’ più distesi nella strada che conduce alla firma finale. Ogni mese di ritardo nell’avvio degli aumenti, infatti, libera risorse che possono essere destinati all’elemento perequativo.
Più alte, e più calde dal punto di vista politico, sono le cifre per la sanità. Il costo dei nuovi contratti è intorno ai 900 milioni di euro all’anno, e supera quindi l’aumento effettivo del fondo sanitario nazionale messo in campo per quest’anno dalla legge di Bilancio approvata a fine 2016. In quella sede era infatti stato stabilito un aumento nominale da un miliardo, in parte però vincolato all’acquisto di farmaci innovativi e alle cure oncologiche. I nuovi contratti, quindi, sono destinati a tradursi in un aumento del peso del personale sul complesso dei finanziamenti alla sanità: prospettiva che i governatori (soprattutto quelli dei partiti di opposizione) non intendono avallare senza obiezioni.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 22 gennaio 2018