Gli italiani vanno in pensione prima rispetto ai loro colleghi dei principali Paesi occidentali, e hanno un reddito pensionistico relativamente più alto. Tocca all’Ocse ricordare queste caratteristiche del nostro attuale sistema previdenziale, che insieme a quello greco è anche l’unico che genera una spesa pubblica ben superiore al 15 per cento del Pil. Nell’edizione 2017 del suo rapporto Pensions at a glance l’organizzazione internazionale con sede a Parigi evidenzia però anche un altro aspetto: l’Italia è uno dei pochi Paesi che hanno già stabilito le regole per accompagnare l’evoluzione demografica dei prossimi decenni, cosicché l’età a cui prevedibilmente potrà lasciare il mondo del lavoro un ragazzo che vi entra oggi si avvicina ai 71 anni.
LE DIFFERENZE
Naturalmente ci sono molte differenze all’interno dell’area Ocse, ma il contesto comune è quello di una popolazione che continua a invecchiare. Il rapporto raccomanda quindi la prosecuzione delle riforme, che negli ultimi anni in genere hanno rallentato il passo. E per l’Italia – che le riforme già le ha fatte – questo vuol dire essenzialmente continuare ad applicarle. Allo stesso tempo gli economisti dell’organizzazione suggeriscono di valorizzare i percorsi di uscita flessibile, come quello che da noi è previsto all’interno del sistema contributivo.
Confrontare sistemi previdenziali diversi in un ambito internazionale così diversificato non è facile. Il punto di partenza è l’età normale di uscita, ovvero quella a cui si può lasciare il lavoro se non scattano deroghe o condizioni particolari. In Italia l’età della pensione di vecchiaia è fissata a 66 anni e 7 mesi e come è noto salirà a 67 dal 2019. Un valore piuttosto alto rispetto a quello di altri Paesi. Viene però preso in considerazione anche il canale di uscita anticipato, che da noi è a 62 anni e 10 mesi (uno in meno per le donne se si applicano i requisiti contributivi richiesti per la pensione anticipata ad un lavoratore che aveva iniziato l’attività a 20 anni. In realtà però l’età media effettiva è attualmente più bassa, 62,1 anni per gli uomini e 61,3 per le donne, perché esistono ulteriori canali che possono permettere di uscire anticipatamente. Solo i francesi e i belgi riescono ad andare in pensione un po’ prima: la media dell’area Ocse è invece 65,1.
LA RICCHEZZA
L’altro aspetto da tenere in considerazione è l’importo dei trattamenti pensionistici, valutato attraverso il tasso di sostituzione, ovvero il rapporto percentuale tra la prima pensione e l’ultimo stipendio, entrambi netti. Nel nostro Paese siamo attualmente al 93 per cento, contro una media che non arriva al 63. Valori più alti di quello italiano si trovano in pochi Paesi, Olanda, Portogallo e Turchia. Un rapporto così elevato dipende in buona parte dal più generoso sistema retributivo applicato in passato; ma anche in futuro il nostro tasso di sostituzione resterà a livelli relativamente più alti, a condizione però che ci sia una carriera lavorativa piena. E questa è la difficoltà. I pensionati sono anche abbastanza ricchi se paragonati al resto della società: in Italia i redditi medi coincidono mentre nell’Ocse gli anziani possono contare in media su guadagni inferiori del 12 per cento.
Dagli scivoli alle salvaguardie degli esodati così si riesce a lasciare il lavoro in anticipo
Quanti sono in Italia i canali per andare in pensione prima dell’età della vecchiaia? Tanti. Gli uffici studi di Camera e Senato ne hanno recentemente contati dodici, includendo l’Ape sociale e la volontaria (che di fatto deve ancora entrare in vigore) e senza contare in quanto caso a sé stante il mosaico di deroghe concesse agli esodati. In alcuni casi si tratta di opzioni residuali e limitate a particolari categorie, in altri gli schemi sono destinati ad esaurirsi in un futuro prossimo: tutte insieme però queste eccezioni spiegano perché dopo tante e incisive riforme l’età effettiva a cui si lascia il lavoro risulta tuttora circa cinque anni al di sotto di quella legale della vecchiaia.
IL PRIMO CANALE
Il primo e più significativo canale è la pensione anticipata, che prima della riforma Fornero si chiamava di anzianità ed era decisamente più facile da conseguire. Oggi servono 42 anni e 10 mesi di contributi (un anno in meno per le donne): il vantaggio è comunque ancora sensibile per chi a suo tempo aveva iniziato a lavorare presto. Una forma di pensione anticipata è prevista anche nel sistema contributivo, con 20 anni di contributi e età di uscita fissata a 3 anni prima della vecchiaia. Recentemente è stato introdotto il part time agevolato, che permette di lavorare a orario ridotto perdendo solo una parte della retribuzione; ma l’opportunità è stata colta solo da alcune centinaia di persone. Sono invece in via di esaurimento in questi mesi l’opzione donna, con la quale le lavoratrici possono uscire anche a 57/58 anni ma con una forte penalizzazione finanziaria, e la clausola eccezionale della legge Fornero che permette a certe condizioni di andarsene a 64 anni e 7 mesi. Sempre la riforma entrata in vigore nel 2012 – decisamente severa – ha prodotto in modo più o meno confuso altre eccezioni a sé stessa. Da una parte per affrontare il problema degli esodati, ovvero di chi era rimasto senza lavoro e senza pensione, sono state architettate in successione le otto salvaguardie, sempre più estese; dall’altra a chi è impegnato in lavori usuranti vengono riconosciute vie di uscita anticipata tra i 61 e i 64 anni, con il sistema delle quote (di meccanismi simili godono anche le forze dell’ordine). Un caso particolare è quello dei lavoratori esposti all’amianto, che grazie ad una serie di complessi meccanismi vedono i propri periodi contributivi valorizzati in misura superiore rispetto agli anni di lavoro effettivamente prestati.
Altri strumenti sono specificamente legati alle situazioni di crisi aziendale. È il caso della cosiddetta isopensione introdotta nel 2012 da un’altra riforma firmata Fornero, quella del lavoro: in caso di eccedenza di personale e tramite accordo con i sindacati le grandi aziende possono riconoscere direttamente ai dipendenti un trattamento analogo alla pensione per un periodo fino a quattro anni; la legge di Bilancio attualmente in discussione dovrebbe estendere lo scivolo a sette anni. In maniera simile operano i fondi di solidarietà, chiamati in causa però quando la crisi è tale da richiedere la sospensione dell’attività o comunque una sua riduzione. E ci sono anche i contratti di solidarietà espansiva, che puntano ad una staffetta generazionale offrendo un meccanismo in qualche modo simile al part time a coloro a cui mancano non più di due anni all’uscita.
ARRIVA L’APE
Le due forme di anticipo note come Ape sono invece le ultime arrivate. Si tratta in realtà di due strumenti diversi: quella sociale è di fatto un’indennità riconosciuta a particolari categorie in attesa della pensione definitiva, la volontaria ha invece la forma di un prestito a valere sul successivo trattamento pensionistico: probabilmente eserciterà un certo richiamo solo su lavoratori con un reddito abbastanza alta.
IL Messaggero – 6 gennaio 2017