L’Ocse supera in ottimismo il governo, e prevede per l’Italia una crescita dell’1,6% per quest’anno, riallineandosi con i numeri governativi per il 2018 (+1,5%) e il 2019 (+1,3%); anche sul debito pubblico, le cifre Ocse scendono sotto a 129,8% del Pil l’anno prossimo (il governo prevede 130%), e si mostrano più prudenti sul 2019 (127,7% del Pil secondo l’Ocse, 127,1% per il governo). Numeri positivi, che però secondo l’Organizzazione dei 35 paesi industrializzati non permettono di «rallentare il ritmo delle riforme strutturali e il consolidamento dei conti pubblici»: non toccate la riforma delle pensioni, intima in sostanza l’Ocse, guardando al dibattito di queste settimane ma soprattutto alle incertezze politiche in vista delle elezioni.
Le cifre contenute nelle previsioni di novembre diffuse ieri offrono per l’Italia una doppia correzione al rialzo, in linea con le dinamiche osservate nel contesto internazionale (si veda l’articolo a pagina 5). A spingere la crescita italiana, il paese che secondo il segretario generale dell’Ocse, Angel Gurría, «ha dinanzi a sé le sfide maggiori fra le nazioni del G7», è anche la ricaduta degli interventi di politica economica di questi anni, dalla decontribuzione per i nuovi assunti alla replica degli sconti fiscali per gli investimenti fino ai programmi di estensione della e-fattura nelle transazioni fra privati. Interventi che però hanno bisogno di una «piena attuazione» per rafforzare crescita potenziale e coesione sociale. Ovvia la soddisfazione del ministro dell’Economia: «L’Ocse sa far bene il suo mestiere – sorride Padoan – per cui mi fido dei dati lusinghieri che ci ha fornito oggi».
Nei numeri messi in fila dagli analisti dell’organizzazione parigina ci sono sia le opportunità sia i rischi per il Paese. Tra le prime c’è la spinta prodotta dai consumi interni, mentre fra le seconde restano le incognite del credito: la riduzione dello stock di crediti deteriorati, favorita dalle operazioni straordinarie modello Unicredit, ha aumentato la fiducia in un alleggerimento della zavorra, e di una conseguente ripresa dell’economia. Se la discesa assumesse un ritmo più rapido, si nota tuttavia nell’Economic Outlook, rafforzerebbe ulteriormente gli investimenti privati tagliando una delle «vulnerabilità finanziarie» del Paese. L’altra è naturalmente rappresentata dal debito pubblico, nonostante la discesa in programma: in fatto di Pa, invece, le chance maggiori arrivano dalla maxi-staffetta generazionale al via con l’ondata di pensionamenti, che rappresenta «un’opportunità di forte riorganizzazione» per gli uffici pubblici.
Tornando al potenziale della crescita economica, ieri Istat ha diffuso gli ultimi dati sulla natalità e la fecondità della popolazione, un’istantanea sul vero e proprio calo demografico che s’è consumato nei lunghi anni della crisi. Tra il 2008 e il 2016 ci sono state oltre centomila nascite in meno. E alla fine dell’anno scorso sono stati iscritti in anagrafe per nascita 473.438 bambini, oltre 12mila in meno rispetto al 2015. Un crollo soprattutto dovuto alle minori nascite da coppie di genitori italiani, visto che negli anni della peggiore crisi economica vissuta dall’Italia si sono drasticamente ridotti anche i matrimoni, con la conseguenza che i primi figli sono passati da 283.922 del 2008 a 227.412 dell’anno scorso (-20%). Nel nostro Paese, come in altri Paesi mediterranei, il legame tra nuzialità e natalità è altissimo (l’anno scorso il 70% delle nascite è avvenuta all’interno del matrimonio). Istat ha indagato a fondo, in questi anni di crisi, la portata del legame tra recessione e crollo della natalità. Ed è arrivata alla conclusione che la mancanza di prospettive certe di impiego e reddito hanno sempre indotto le giovani coppie a rinviare le loro scelte matrimoniali. «Nel 2012 – spiega Sabrina Prati, direttore del servizio demografico Istat – da una nostra indagine su un campione di mamme abbiamo avuto come risposta quella del rinvio a tempi migliori sulla scelta di avere un secondo figlio». Con il miglioramento del ciclo economico il calo delle nascite potrebbe rallentare: i mille e cinquecento nati in meno dei primi sei mesi di quest’anno vanno confrontati con i meno 8mila degli anni scorsi. Ma gli indicatori di natalità e fecondità non fanno ben sperare.
Davide Colombo e Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 29 novembre 2017