Non è facile stare nei panni di Elsa Fornero, economista torinese, chiamata al governo negli anni bui della più profonda crisi istituzionale e finanziaria del dopoguerra. Il suo nome è legato indissolubilmente alla riforma che ha strutturalmente mutato i connotati al sistema pensionistico italiano. Fu fatta in fretta, con tanti errori, a cominciare dagli esodati, ma ci evitò il commissariamento che invece è toccato alla Grecia. La “legge Fornero” continua ad essere un nemico di buona parte dei partiti che allora la votarono e che ora si preparano alla campagna elettorale. Elsa Fornero vive con disagio tutto questo, dice che è riuscita a non farsi «vincere» ma non esita a definire «penosa e vigliacca» la politica che «inganna i cittadini con le promesse anziché parlare il linguaggio della verità».
Hanno fatto bene il premier Gentiloni e il ministro Padoan a impedire il blocco dell’aumento dell’età pensionabile dopo che l’Istat ha certificato l’incremento della speranza di vita di cinque mesi?
«Direi proprio di sì perché è una scelta che risponde a un’esigenza di medio periodo nell’interesse generale e non, appunto, elettorale. Si è evitato di scaricare sui giovani il costo di un’operazione che avvantaggerebbe solo le generazioni più mature».
L’obiezione che viene fatta a questo ragionamento, così come alla sua legge che portò bruscamente a 65 anni l’età per la pensione, è che lasciando i più anziani al lavoro non si liberano i posti per i giovani.
«Questo è un luogo comune, frutto di un’interpretazione eccessivamente rigida sul funzionamento di un’economia e del suo mercato del lavoro. Sottende l’idea che ci sia una quantità fissa di posti di lavoro. È lo stesso ragionamento che negli anni è stato adottato nei confronti delle donne al lavoro e si è visto che non è così. Statisticamente è dimostrato che i Paesi che hanno avuto anche durante la crisi un basso tasso di disoccupazione giovanile sono quelli che hanno un alto tasso di occupazione tra i lavoratori più anziani. Vale per la Germania, per i Paesi scandinavi, per l’Olanda. Il ragionamento va capovolto: vanno create le occasioni di lavoro, anche attraverso le politiche attive per il lavoro rispetto alle quali siamo a dir poco impreparati, e non pensare che al lavoro si acceda cacciando qualcun altro».
Ma perché bisogna continuare ad alzare l’età quando un sistema pensionistico contributivo presuppone flessibilità in uscita con penalizzazioni sull’assegno a carico di chi lascia prima il lavoro?
«Solo dal 2012 tutte le pensioni sono pro rata calcolate con il metodo contributivo. Ci vorrà ancora una ventina d’anni perché le pensioni siano interamente contributive. Da allora in poi potranno scattare i meccanismi di flessibilità».
Poiché non è uguale lavorare fino a 67 anni quando si fa il facchino o l’impiegato si sta pensando di allargare le maglie dell’anticipo pensionistico sociale. Come considera questa ipotesi?
«Mi pare la strada giusta. Osservo che il governo Monti dovette realizzare la riforma in venti giorni mentre sono passati più di cinque anni senza che sia stato introdotto questo giusto correttivo. Dunque penso che sia una buona innovazione che può permettere a categorie sfortunate di non subire l’effetto dell’indicizzazione senza mettere a repentaglio la sostenibilità del sistema previdenziale. È un intervento sociale che per la prima volta realizza la separazione tra assistenza e previdenza».
L’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, padre insieme a Maurizio Sacconi, del meccanismo che automaticamente innalza l’età con l’aumento dell’aspettativa di vita, sostiene che la sua riforma, realizzata su “ordine dei tedeschi”, “ha distrutto tutto”. Cosa risponde?
«Dico che trovo penoso che una persona, che qualcuno definirebbe personalità, si abbassi a questo livello di polemica politica. Non gli fa onore. Evidentemente è entrato in campagna elettorale, io no. Lo spread che volava non fu colpa dei tecnici ma dell’impasse politico in cui il Paese era precipitato e di cui Tremonti era parte. Aggiungo che la riforma varata nel 2011 è ancora lì, che ci ha dato quella credibilità in Europa che con il governo che ci precedette (Berlusconi, ndr) era finita sotto le scarpe».
Repubblica – 6 novembre 2017