Non sarà la «svolta vera» che chiede Susanna Camusso, leader Cgil. Ma l’unica proposta davvero in campo per bloccare, almeno per un periodo, lo scalino che porterà tutti — uomini e donne — in pensione di vecchiaia a 67 anni dal 2019. E disinnescare così la minaccia della Cgil: uno sciopero con le elezioni alle porte. L’idea del premier Paolo Gentiloni è di affidare a un emendamento al decreto fiscale, ora in Senato, lo spostamento del termine di legge entro cui i ministeri di Economia e Lavoro devono emanare il decreto “direttoriale” che recepisce i nuovi dati Istat sulla speranza di vita. Fissando così l’età d’uscita a 67 anni, cinque mesi più di oggi.
La data per il decreto — obbligatorio, pena il danno erariale sanzionabile dalla Corte dei Conti — potrebbe così slittare dal 31 dicembre al 30 giugno, concedendo al confronto con le parti sociali — forse anche grazie all’apporto di una commissione ad hoc — un semestre in più per valutare nuove flessibilità nel meccanismo automatico, non escludendo di accelerarne le conclusioni. Così da tenere fuori professioni molto usuranti o gravose, da affidare poi allo strumento dell’Ape sociale perché possano anticipare la pensione ai 63 anni, a carico dello Stato.
Gentiloni conta di illustrare il piano ai segretari generali di Cgil, Cisl e Uil quando li riceverà giovedì 2 novembre nella Sala Verde di Palazzo Chigi. Partendo proprio dal loro ragionamento secondo cui i lavoratori e i lavori non sono tutti uguali. E illustrando i pericoli insiti in soluzioni alternative. Far saltare del tutto l’adeguamento all’aspettativa di vita, che si aggiorna ogni tre anni (ogni due dal 2019), non solo aprirebbe un buco nei conti: 3 miliardi già nel 2020 di maggiore spesa pensionistica, calcola la Ragioneria generale. Ma anche un non auspicabile fronte con Bruxelles.
Susanna Camusso fa già sapere di essere «poco affascinata dal numero dei mesi». E che «rimandare la scelta a dopo le elezioni potrebbe essere anche peggio». Secondo la leader Cgil non basta «rinviare il decreto direttoriale, c’è bisogno di regole strutturali, occorre ridefinire le materie», dall’aspettativa di vita al lavoro di cura. In ogni caso, questa volta si aspetta dal governo «un atto impegnativo», non un semplice verbale di intesa.
L’emendamento al decreto fiscale (non alla manovra di Bilancio che entra in vigore dal primo gennaio, troppo tardi per disinnescare la tagliola del 31 dicembre) potrebbe essere il punto di caduta che convince tutti. Specie se accompagnato dall’impegno, questo sì da inserire in manovra, di rendere strutturale l’Ape sociale, sin qui sperimentale fino al 31 dicembre 2018. E allargarla a nuove categorie di lavoratori da individuare: dagli edili alle maestre elementari (escluse, a differenza delle colleghe di materne e asili), dagli infermieri anche di reparto e non solo di sala operatoria.
Il segretario del Pd Matteo Renzi si è già detto d’accordo, «Sei mesi in più non costano nulla». Così anche il suo vice e ministro Maurizio Martina: «Ribadiamo il nostro impegno per rivedere l’automatismo, serve gradualità». E il ministro del Lavoro Giuliano Poletti: «Abbiamo un anno davanti per riflettere sul fatto che non tutte le aspettative di vita sono uguali ».
Fuori dal coro solo il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda: «Le risorse vanno messe su lavoro, giovani, investimenti, reddito di inclusione». Sposando così la posizione di Confindustria, espressa dal presidente Boccia. E quella del presidente Inps Tito Boeri che a Repubblica è andato all’attacco dei partiti, interessati a bloccare l’età pensionabile «solo per ragioni elettorali».
Repubblica – 30 ottobre 2017