Toccherà alle intese il compito di neutralizzare gli effetti degli aumenti medi sull’aiuto. La querelle sugli 80 euro interessa da vicino più di 300mila dipendenti pubblici, e promette di accompagnare il dibattito sui contratti anche dopo la manovra.
Il problema nasce dall’incrocio fra gli 85 euro (lordi) di aumento promessi dal rinnovo contrattuale, su cui la legge di bilancio interviene per completare il quadro dei finanziamenti, e il diritto a ricevere gli 80 euro (netti) del bonus Renzi. Nei giorni scorsi era circolata l’ipotesi di blindare nella manovra la clausola che salva gli 80 euro dall’effetto-aumenti, ma le sue quotazioni si sono drasticamente ridotte. Essendo complicato, per ragioni politiche ma anche costituzionali, distinguere esplicitamente la sorte dei dipendenti pubblici da quella di chi lavora nel privato e non ha salvaguardie, i tecnici hanno studiato una rimodulazione complessiva delle fasce di reddito a cui sono rivolti gli 80 euro: oggi il “decalage”, che abbassa il bonus all’aumentare dei guadagni dichiarati dal contribuente, si applica fra 24mila e 26mila euro di reddito, e per attenuare gli effetti dei rinnovi contrattuali si era pensato di correggere al rialzo entrambe le fasce. Ma una scelta del genere costa, e non raggiunge del tutto l’obiettivo.
La decisione finale sarà presa in questi giorni, ma l’idea è quella di lasciare il compito ai contratti, come del resto prevedeva anche l’intesa firmata da governo e sindacati il 30 novembre dell’anno scorso.
A guardare con interesse diretto alla questione sono oltre 300mila dipendenti pubblici, come mostrano i numeri elaborati dall’Aran (l’agenzia che rappresenta la Pa come datore di lavoro). Sono 309mila i dipendenti di Stato ed enti locali che guadagnano fra 24mila e 26mila euro, e si collocano quindi nella fascia in cui ogni ritocco al rialzo nella busta paga si tradurrebbe in un taglio al bonus. La questione, però, può toccare anche una parte delle 53mila persone che oggi si fermano fra 23mila e 24mila euro, e rischiano di entrare nel decalage con i nuovi contratti. Gli 85 euro lordi promessi dall’intesa dell’anno scorso significano infatti 1.105 euro lordi all’anno (e 1.529 di costo complessivo a carico delle finanze pubbliche, compresi i contributi).
Come se ne esce? La prospettiva, si diceva, è di rimandare la palla ai contratti, con l’applicazione di quel principio della «piramide rovesciata» che secondo il governo dovrebbe concentrare gli aumenti sulle fasce di reddito più basse, per compensarle del peso della crisi di finanza pubblica sopportato in questi anni. La strategia è chiara ma la sua traduzione pratica non è semplice. Gli 80 euro dipendono dal reddito complessivo, e non solo da quello da lavoro, e questo impone il meccanismo che ogni anno ridisegna il perimetro dell’aiuto in base alle dichiarazioni fiscali. I contratti potrebbero quindi accantonare una dote per mettere in pista un sistema simile, oppure più semplicemente modulare gli aumenti tenendo conto delle ricadute generali sul bonus ma rinunciando alla tutela individuale.
In ogni caso, visti i numeri la tutela costerebbe oltre 200 milioni di euro, per compensare una “perdita” media di 40 euro pro capite. Per ministeri ed enti pubblici nazionali il problema finanziario non si pone, perché fonti del governo confermano che la manovra metterà a disposizione dei contratti altri 1,7 miliardi (gli 850 milioni scritti nel Dpb riguardano solo gli effetti sull’indebitamento, ma una parte degli aumenti torna ai conti pubblici in termini di tasse), portando a 2,9 miliardi il finanziamento complessivo. Le stesse cifre confermano però che al momento è difficile trovare aiuti aggiuntivi per sanità, regioni ed enti locali: che dovrebbero quindi cercare nei propri bilanci i soldi per aumenti e salvaguardia dei bonus.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 18 ottobre 2017