Licenziare costa meno. Molto meno alle grandi aziende. Addirittura meno che mettere i dipendenti in cassa integrazione straordinaria. È l’effetto combinato di due riforme del lavoro. Quella Fornero del 2012, che ha disposto l’eliminazione della mobilità a partire da quest’anno. E con essa anche del contributo per accedere ai licenziamenti collettivi, sostituiti da un ticket almeno quattro volte più basso. E il Jobs Act di Renzi del 2015 che ha quintuplicato l’aliquota di accesso alla cassa integrazione straordinaria, per scoraggiarne l’uso prolungato: dal 3% sino a un massimo del 15%. Risultato: buttare fuori un lavoratore conviene oggi più di ieri.
Ecco perché, dopo i corposi incentivi e sgravi concessi in questi anni, il governo Gentiloni intende chiedere alle imprese uno sforzo aggiuntivo, da inserire nella imminente legge di Bilancio. Versare cioè un ticket licenziamento più alto dell’attuale, così da finanziare il nuovo assegno di ricollocamento collettivo. Quello che a differenza dell’individuale scatta, nelle gravi crisi industriali, non dopo quattro mesi di Naspi, ma appena il lavoratore entra in cig. Per consentirgli, dopo adeguata formazione, una sistemazione più rapida. L’assegno viene incassato dalle aziende che lo assumono in pianta stabile. A lui resta la metà almeno della cig residua, quella che avrebbe comunque percepito.
La pressione dei sindacati, su questo tema, è forte. Sabato 14 ottobre, nei presidi davanti alle prefetture di cento città, Cgil Cisl e Uil chiederanno tra le altre cose al governo di rivedere sia i costi di accesso alla cig straordinaria, sia il ticket licenziamento. Difficile che Palazzo Chigi possa ritoccare il Jobs Act. Molto più probabile una revisione del ticket. I numeri d’altro canto parlano chiaro. Fino allo scorso anno le aziende sopra i 15 dipendenti erano tenute a contribuire alla mobilità in due modi: versando all’Inps lo 0,30% dello stipendio lordo di ciascun lavoratore e assicurando, sempre all’Inps, il contributo una tantum all’atto del licenziamento. Il cui importo variava tra le 3 e le 6 volte l’indennità di mobilità (1.168 euro). E oscillante dunque tra 3.500 e 7 mila euro, a seconda della presenza o meno di un accordo sindacale.
Da quest’anno invece via la mobilità, via lo 0,30%, via il contributo. Resta solo il ticket licenziamento, a suo tempo istituito dalla Fornero per i licenziamenti individuali e ora esteso anche a quelli collettivi: parliamo di 490 euro (il 41% del tetto massimo della Naspi) per ciascun anno di anzianità, con un massimo di tre anni. In soldoni, le aziende risparmiano lo 0,30% e al massimo pagano 1.500 euro. Il 60% in meno per un lavoratore anziano, l’87% in meno per un giovane – calcola la Uil, Servizio politiche del lavoro – se c’è accordo sindacale. Senza contare che le imprese sono invogliate a scegliere la mobilità anziché una cig straordinaria molto più cara, grazie al Jobs Act. In sintesi, se prima mettere in cassa un lavoratore anziché licenziare costava 3 mila euro in meno, ora costa mille euro in più. Proprio per effetto delle due riforme, Fornero e Renzi.
È chiaro che Confindustria resiste. Gli imprenditori non vorrebbero che uscisse dalla finestra (il ticket) ciò che entra dalla porta (i nuovi sgravi per le assunzioni dei giovani). Tra l’altro il governo si aspetta una partecipazione attiva anche dei fondi interprofessionali nella riqualificazione dei lavoratori espulsi. Una partita aperta.
Repubblica – 8 ottobre 2017