Cheese compie vent’anni e il suo compleanno è una sorta di ritorno al futuro, se è vero che la prima edizione della manifestazione era stata dedicata al latte crudo, seguita quattro anni più tardi dal manifesto in sua difesa. Un impegno importante, appassionato, troppo poco supportato. Non a caso, l’etichetta tipo: latte-caglio-sale continua a tacere sull’opzione latte crudo/pastorizzato.
In questo deterioramento della percezione qualitativa l’Italia è in ottima compagnia, visto che i formaggi a latte pastorizzato sono ormai la stragrande maggioranza da una parte all’altra del mondo. Ma noi siamo noi, campioni di biodiversità casearia con la sola Francia a rivaleggiare per qualità (in compenso, molto migliore di noi nella comunicazione).
E allora, il tema del latte crudo — che attiene a poche produzioni da grandi numeri come Parmigiano Reggiano e Grana Padano, e a migliaia di piccoli artigiani — è tornato d’attualità, e sarà al centro di buona parte dei dibattiti a margine della manifestazione in programma da domani a lunedì a Bra, cittadella- madre di Slow Food. Produrre a latte crudo è un impegno serio. Perché la stalla dev’essere pulita come una clinica svizzera, gli animali trattati bene e soprattutto alimentati con criterio. Il latte dev’essere di buona qualità, senza difetti, altrimenti va a male. E comunque dev’essere lavorato nei tempi stretti che garantiscono la sua perfetta sterilità.
Bisogna avere passione, per fare i formaggi a latte crudo. Ferdinando Cozzolino, fornitore di mozzarelle di bufala del Quirinale, si alza tutte le notti alle tre, Natale e Ferragosto compresi. Potrebbe limitarsi a trattare termicamente il latte, congelarlo o termizzarlo, come fa gran parte dei suoi colleghi campani. Nulla di illegale o disdicevole. «Però il latte cambia consistenza, i globuli di grasso si rompono, i profumi scompaiono, occorre intervenire con adiuvanti vari».
Ma la buona pratica della lavorazione a latte crudo oggi non basta più. A fronte del processo virtuoso di attenzione nei confronti dei “buoni formaggi”, i furbetti del quartierino caseario hanno inventato il trucco dei fermenti aggiunti e dei mangimi da pascolo.
I fermenti sono assimilabili ai lieviti selezionati, responsabili di troppe bottiglie di vino perfettino, anonimo, uguale dal Piemonte alla Sicilia. I formaggi lavorati con i fermenti selezionati, che coprono e cancellano quelli propri del latte appena munto, sono scevri da fermentazioni anomale, sentori ruvidi, stagionature a rischio. Gradevoli e senza errori, ma totalmente privi del fascino rapinoso di un latticino pienamente figlio del suo territorio, meglio ancora del suo pascolo, a patto però che il casaro eviti di integrare l’erba brucata in alpeggio con i mangimi per incrementare la produzione di latte (dimezzata con gli animali in libertà).
Succede perché in troppi continuano a pensare al cibo come a una merce ( commodity) e non come a un valore. Le tome d’alpeggio vanno pagate più di quelle industriali. Altrimenti non si capisce perché un allevatore debba regalarsi una vita dieci volte più faticosa e complicata.
Eppure, in tanti continuano a crederci. Ragazzi come Martino Patti, laureato alla Normale di Pisa, che vive in un casolare della montagna torinese ristrutturato con le sue mani e chiama le sue capre per nome, con tanto di nastri colorati al collo. Le capre lo ringraziano dandogli un latte strepitoso, con cui fa dei caprini magnifici. O la napoletana Sara Esposito, che dopo la laurea in Agraria è andata a vivere all’isola d’Elba per seguire la nascita della sua fattoria didattica, dove realizza pecorini squisiti. Sono il loro il futuro dei grandi formaggi italiani. Il meglio del presente, è da domani a Bra.
DIFENDIAMO L’ECCELLENZA DA UN MERCATO CHE PREMIA PIÙ IL PREZZO CHE LA QUALITÀ
CARLO PETRINI. Dedicare la prossima edizione di Cheese, quella del ventennale, ai formaggi a latte crudo non è una scelta dettata dalla nostalgia, ma una precisa direzione politica che ci aiuta a ribadire, a gran voce, quello che noi crediamo sia la qualità dei formaggi, ma non solo.
Sono molte le tematiche legate alla filiera lattiero-casearia, tante quante sono le sfumature di un prodotto complesso come il formaggio, e vanno dalle condizioni di lavoro dei pastori al benessere animale, dalla biodiversità alla difesa dell’artigianalità, dall’origine ed etichettatura del latte al presidio dei territori marginali, senza dimenticare il piacere.
Parlare di latte crudo oggi significa parlare della difesa delle piccole produzioni artigianali e tradizionali che, più che in passato, sono minacciate da un mercato che non riconosce più il valore del cibo, ma solo il suo prezzo. Una tendenza che vede le aziende lattiero-casearie diminuire di numero, ma aumentare di dimensione, innescando economie di scala che portano all’abbandono delle razze locali a favore di quelle internazionali e superproduttive, ad allevamenti senza pascolo dove gli animali vengono nutriti con mangimi a base di soia e insilati, e dove il latte, completamente privo di legami con il territorio di provenienza, viene pastorizzato, sterilizzato, e ridotto a mero semi-lavorato.
Ogni volta che un artigiano decide di smettere di fare il formaggio perdiamo biodiversità e perdiamo cultura, cediamo il passo alla standardizzazione del gusto e a logiche industriali che, applicate al cibo, risultano deleterie per il benessere di tutti coloro che sono coinvolti nella filiera, cittadini compresi.
Quando dietro la maschera dell’iper-igiene nascondiamo la noncuranza per i problemi di chi ogni giorno lavora per creare un prodotto diverso ed eccellente, sacrifichiamo un pezzo della nostra cultura che non potremo più recuperare, e non è questo il mondo che vogliamo.
Repubblica – 14 settembre 2017