I controlli del datore di lavoro sulle email spedite da un dipendente dal computer aziendale, per fini personali, possono essere previsti solo nel rispetto di alcuni parametri come un’informazione preventiva, l’impossibilità di ricorrere a misure meno intrusive, l’esistenza di gravi motivi che spingono l’azienda al controllo. È la Grande camera della Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza depositata ieri nel caso Barbulescu contro Romania (n. 61496/08), con la quale Strasburgo ha modificato il verdetto della Camera e, seppure a maggioranza (11 a sei), ha condannato la Romania perché i controlli disposti dal datore di lavoro privato nei confronti di un dipendente, poi licenziato, non erano stati effettuati rispettando alcuni criteri necessari a garantire il giusto equilibrio tra i diversi interessi in gioco.
Vita privata e lavoro
È stato un ingegnere di una società privata rumena a ricorrere alla Corte europea in seguito al licenziamento deciso dal datore di lavoro perché il dipendente, dopo aver attivato un account per rispondere ai quesiti dei clienti, aveva utilizzato la mail per scambiarsi messaggi con i familiari. L’uomo era stato licenziato per utilizzo di beni dell’azienda a fini personali. I giudici nazionali avevano dato ragione al datore di lavoro e, quindi, l’uomo ha presentato un ricorso a Strasburgo, contestando allo Stato un’omessa protezione del diritto al rispetto della vita privata garantito dall’articolo 8 della Convenzione.
Se la Camera aveva dato ragione allo Stato, la Grande camera ha raggiunto una diversa conclusione, a favore del dipendente.
Il massimo organo giurisdizionale, prima di tutto, ha precisato che la nozione di vita privata in base alla Convenzione non ha una portata limitata e, quindi, non può essere circoscritta al solo ambito della sfera personale, ma deve includere ogni aspetto che permette all’individuo di sviluppare la propria identità sociale. Di qui l’inclusione delle attività professionali. D’altra parte – osserva la Corte – proprio durante l’attività lavorativa, «la maggior parte delle persone ha modo di avere una significativa, se non la più ampia possibilità, di sviluppare relazioni con il mondo esterno». Pertanto, nella sfera di protezione dell’articolo 8 rientrano anche le conversazioni e le email che hanno origine dagli uffici.
Chiarito, così, che le comunicazioni per email rientrano nella nozione di corrispondenza, protetta dall’articolo 8, la Grande camera sottolinea la necessità che venga raggiunto un giusto equilibrio tra diritto al rispetto della vita privata e interesse del datore di lavoro al buon funzionamento dell’azienda e al rispetto dei doveri professionali da parte dei dipendenti. Talune limitazioni – scrive la Corte – possono essere necessarie, «ma non è possibile ridurre la vita privata in un luogo di lavoro a zero».
Controlli e informativa
È vero che gli Stati hanno un’ampia discrezionalità nell’adozione di un «quadro normativo che disciplini le condizioni in base alle quali un datore di lavoro può regolare le comunicazioni, elettroniche e non, di natura personale, effettuate dai dipendenti sul luogo di lavoro», ma le autorità nazionali, che hanno obblighi positivi, devono assicurare l’applicazione di condizioni e regole per i controlli sulle comunicazioni. Questo per assicurare un monitoraggio con «garanzie adeguate e sufficienti», funzionali ad evitare abusi.
Questi i fattori rilevanti che devono essere rispettati: un’informazione chiara al dipendente sulla possibilità di un controllo, data in anticipo rispetto al monitoraggio; una valutazione sul grado e l’ampiezza dell’intrusione, tenendo conto del tempo e del numero di soggetti che hanno avuto accesso ai contenuti. Centrale, poi, la presenza di giustificazioni legittime che spingono il datore di lavoro a procedere ai controlli e la possibilità di avvalersi di sistemi meno intrusivi. Fermo restando il diritto del lavoratore di ricorrere in sede giurisdizionale.
Verificato che era mancata la comunicazione preventiva, che non era stato chiarito il motivo che aveva spinto al monitoraggio e se l’accesso al contenuto delle comunicazioni era stato possibile a insaputa del dipendente, la Corte ha accertato la violazione dell’articolo 8. Respinte, invece, le richieste di indennizzo sia per i danni patrimoniali sia per quelli non patrimoniali.
È stato un ingegnere di una società privata rumena a ricorrere alla Corte europea in seguito al licenziamento deciso dal datore di lavoro perché il dipendente, dopo aver attivato un account per rispondere ai quesiti dei clienti, aveva utilizzato la mail per scambiarsi messaggi con i familiari. L’uomo era stato licenziato per utilizzo di beni dell’azienda a fini personali. I giudici nazionali avevano dato ragione al datore di lavoro e, quindi, l’uomo ha presentato un ricorso a Strasburgo, contestando allo Stato un’omessa protezione del diritto al rispetto della vita privata garantito dall’articolo 8 della Convenzione.
Se la Camera aveva dato ragione allo Stato, la Grande camera ha raggiunto una diversa conclusione, a favore del dipendente.
Il massimo organo giurisdizionale, prima di tutto, ha precisato che la nozione di vita privata in base alla Convenzione non ha una portata limitata e, quindi, non può essere circoscritta al solo ambito della sfera personale, ma deve includere ogni aspetto che permette all’individuo di sviluppare la propria identità sociale. Di qui l’inclusione delle attività professionali. D’altra parte – osserva la Corte – proprio durante l’attività lavorativa, «la maggior parte delle persone ha modo di avere una significativa, se non la più ampia possibilità, di sviluppare relazioni con il mondo esterno». Pertanto, nella sfera di protezione dell’articolo 8 rientrano anche le conversazioni e le email che hanno origine dagli uffici.
Chiarito, così, che le comunicazioni per email rientrano nella nozione di corrispondenza, protetta dall’articolo 8, la Grande camera sottolinea la necessità che venga raggiunto un giusto equilibrio tra diritto al rispetto della vita privata e interesse del datore di lavoro al buon funzionamento dell’azienda e al rispetto dei doveri professionali da parte dei dipendenti. Talune limitazioni – scrive la Corte – possono essere necessarie, «ma non è possibile ridurre la vita privata in un luogo di lavoro a zero».
Controlli e informativa
È vero che gli Stati hanno un’ampia discrezionalità nell’adozione di un «quadro normativo che disciplini le condizioni in base alle quali un datore di lavoro può regolare le comunicazioni, elettroniche e non, di natura personale, effettuate dai dipendenti sul luogo di lavoro», ma le autorità nazionali, che hanno obblighi positivi, devono assicurare l’applicazione di condizioni e regole per i controlli sulle comunicazioni. Questo per assicurare un monitoraggio con «garanzie adeguate e sufficienti», funzionali ad evitare abusi.
Questi i fattori rilevanti che devono essere rispettati: un’informazione chiara al dipendente sulla possibilità di un controllo, data in anticipo rispetto al monitoraggio; una valutazione sul grado e l’ampiezza dell’intrusione, tenendo conto del tempo e del numero di soggetti che hanno avuto accesso ai contenuti. Centrale, poi, la presenza di giustificazioni legittime che spingono il datore di lavoro a procedere ai controlli e la possibilità di avvalersi di sistemi meno intrusivi. Fermo restando il diritto del lavoratore di ricorrere in sede giurisdizionale.
Verificato che era mancata la comunicazione preventiva, che non era stato chiarito il motivo che aveva spinto al monitoraggio e se l’accesso al contenuto delle comunicazioni era stato possibile a insaputa del dipendente, la Corte ha accertato la violazione dell’articolo 8. Respinte, invece, le richieste di indennizzo sia per i danni patrimoniali sia per quelli non patrimoniali.
Marina Castellanet – Il Sole 24 Ore – 6 settembre 2017