Nonostante i quattro anni trascorsi da quando è scoppiata l’emergenza Pfas in Veneto, dai rubinetti della “zona rossa” ancora non esce acqua completamente pulita. Lo hanno confermato i dati dell’ente gestore Acque del Chiampo che esattamente un mese fa, il 18 luglio, hanno rilevato una concentrazione totale di acidi perfluoroalchilici pari a 631 nanogrammi per litro di acqua nel Comune di Lonigo. Numeri ben al di sotto dei limiti di performance indicati dall’Istituto superiore di sanità. Cosi alla vigilia della campagna che la Regione Veneto inizierà a settembre per provare a ripulire il sangue dei più giovani fra gli 80mila cittadini monitorati, si riaccende il dibattito – tutto tecnico e politico – su come portare acqua davvero potabile in quest’area tra le province di Vicenza, Padova e Verona in cui i veneti lottano contro questi interferenti endocrini che studi internazionali additano come responsabili di malattie metaboliche, gestazionali nonché oncologiche. Il megaprogetto su cui è al lavoro la Spa regionale Veneto Acque prevede la costruzione della cosiddetta “autostrada dell’acqua” concepita nel lontano 2000 con il nome di Mosav, il Modello strutturale degli acquedotti del Veneto, mai realizzata per carenza di fondi e ora risuscitata dall’emergenza Pfas. In sostanza, si dovrà arrivare ad Almisano (località dove sorgono i pozzi della grande falda contaminata) da tre direttrici: la prima, da est, partirà da Carmignano di Brenta nell’Alta Padovana; la seconda, da ovest, arriverà dal Comune veronese di Caldiero; infine, la tratta sud collegherà Ponso e Montagnana nella Bassa Padovana per poi risalire fino al vicentino.
Secondo Fabio Trolese, presidente di Viveracqua, società che unisce tutti i gestori idrici del Veneto, questa è la vera soluzione del problema. «Un’autostrada delle acque dal Friuli al Garda è assolutamente necessaria. Anche se realizzare condotte da 1,2 metri di diametro in un territorio fortemente urbanizzato significherà impiegare almeno cinque anni per i lavori». Cinque anni dunque, oltre a quelli già trascorsi dall’inizio dell’emergenza. Senza contare che la progettazione dell’opera sembra finita nel tipico tritacarne politico con il governatore Luca Zaia che reclama gli 80 milioni di euro stanziati dal ministero dell’Ambiente ma fermi al Cipe e la sottosegretaria Barbara Degani a ricordare che senza progetto esecutivo il rischio di perdere il finanziamento è concreto. Il tempo scorre e dalle firme sull’accordo di programma quadro per il bacino Fratta-Gorzone, di cui la cifra fa parte, sono trascorsi ormai due dei tre mesi per completare la progettazione. Entro il 24 settembre si dovrà arrivare al dunque.
Ma l’autostrada delle acque è davvero la soluzione migliore? L’assessore regionale all’Ambiente, Giampaolo Bottacin, difende la battaglia politica che lo ha portato alla creazione del campo pozzi sul Brenta a Carmignano, che per primo fornirà acqua all’area Pfas. Ma il sindaco del Comune padovano, Alessandro Bolis, teme che la portata del fiume venga compromessa e attende per novembre la sentenza del tribunale superiore delle acque in risposta alla sua denuncia. Bolis non è l’unico a temere che il Brenta non possa sostenere i 900 litri al secondo che a progetto finito partiranno verso la terra dei Pfas. A lanciare l’allarme a inizio agosto si è aggiunto Enzo Sonza, presidente del Consorzio di bonifica del Brenta, che ha denunciato il costante abbassamento delle acque sotterranee e la perdita, dagli anni Settanta a oggi, di una quarantina di risorgive preziosissime per l’agricoltura del Veneto centrale. Infine, le rimostranze dei cittadini. «Se la volontà politica è davvero quella di risolvere l’emergenza – si chiede Diego Muraro del coordinamento Acque libere dai Pfas perché decidere di costruire ex novo un acquedotto lungo 40 chilometri che costerà almeno 200 milioni di euro? Davvero non è possibile avere acque pulite da bacini a nord della Miteni, l’azienda responsabile della contaminazione della falda acquifera?».
L’Avvenire – 22 agosto 2017