di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. S i vincono le elezioni spendendo più denaro pubblico? Quasi tutti (politici e non) risponderebbero sì, sorridendo per l’ovvietà della domanda. Invece non è così. La realtà è assai più variegata e assai meno ovvia. Statistiche alla mano, non è affatto vero che in democrazie stabili e avanzate i governi che prima delle elezioni hanno lasciato crescere il deficit aumentando la spesa pubblica — con la conseguenza di dover poi aumentare le tasse dopo le votazioni — siano stati rieletti. I cittadini sono meno ingenui di come spesso i politici li immaginino. Ma come, si potrebbe obiettare. Ogni volta che un governo propone di ridurre qualche voce di spesa, subito si levano urla e proteste di questa o quella categoria. È vero, ma in una democrazia ciò che conta è la maggioranza, e spesso le grida di singoli gruppi (anche numerosi) non significano che la maggioranza degli elettori sia contraria a tagli ragionevoli, o sia favorevole ad aumenti di spesa che in futuro richiederanno più tasse — un fatto tenuto il più possibile nascosto prima delle elezioni.
Un esempio recente è David Cameron nel Regno Unito. Fra il 2010 e il 2014 il governo dei conservatori aveva ridotto la spesa pubblica di circa 3 punti di Pil, una cifra che, rapportata all’Italia, vale circa 50 miliardi di euro. I tagli, in parte entrati subito in vigore, in parte annunciati per gli anni successivi, avevano riguardato, fra l’altro, la spesa sociale e le pensioni dei dipendenti pubblici.
Si levarono molte critiche, persino il Fondo monetario internazionale giudicò quei tagli eccessivi. Ci furono manifestazioni di studenti, dimostrazioni in piazza. Ciononostante Cameron vinse ampiamente le elezioni del 7 maggio 2015 aumentando di 26 seggi la maggioranza del Partito conservatore in Parlamento (anche perché nei sei anni del suo governo, nonostante la crisi che colpì gran parte dell’Europa, l’economia britannica era cresciuta in media dell’1,6 per cento l’anno). Quello del Regno Unito non è un caso isolato. Molti studi dimostrano che non vi è alcuna correlazione stabile fra aumenti di spesa e di deficit prima delle elezioni, e successiva vittoria alle urne, almeno in democrazie avanzate. In altre parole, in un ampio campione di Paesi Ocse piu deficit non significa, in media, più voti. Questi sono i fatti.
Un esempio italiano fu la legge di Bilancio varata dal governo guidato da Giuliano Amato nel dicembre 2000, alla vigilia delle elezioni del maggio 2001. Illudendosi di spostare gli elettori verso il centrosinistra il governo abolì la maggior parte dei ticket sanitari (articolo 85, legge n. 388, 23 dicembre 2000) e ogni forma di partecipazione degli assistiti al costo delle prestazioni specialistiche e di diagnostica strumentale. «Finalmente una cosa di sinistra!» disse il leader di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti. Nel maggio 2001 Berlusconi stravinse.
Avvicinandosi le elezioni del prossimo anno la tentazione di guadagnare voti con la spesa riaffiora. Nelle prossime settimane il governo discuterà con i sindacati la loro richiesta di sospendere l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, una richiesta fortemente sostenuta dai presidenti delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, Cesare Damiano e Maurizio Sacconi. Altro che un provvedimento che «aiuterebbe la società a ritrovare fiducia nel sistema previdenziale» come sostengono Damiano e Sacconi! È un provvedimento che scardinerebbe uno dei pochi punti solidi del nostro bilancio, cioé la spesa pensionistica che in Italia è elevata (per colpa delle pensioni di anzianità erogate a pioggia negli anni 70) ma stabile, diversamente da altri Paesi come Francia, Spagna e Germania.
Sospendere l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita vorrebbe dire, prima o poi, ancora più tasse sul lavoro (e quindi meno crescita e meno lavoro) o pensioni più basse, come giustamente continua a ripetere preoccupato il presidente dell Inps Tito Boeri.
Una seconda proposta pericolosa è quella di porre a carico dello Stato il riscatto a fini pensionistici degli anni di studio universitario, un’idea nata tra i giovani del Pd e poi raccolta dal sottosegretario pd all’Economia, Pier Paolo Baretta. Sarebbe un tipico regalo preelettorale. Non solo, ma un regalo ai ricchi perche sono i figli delle famiglie relativamente più ricche quelli che si laureano, soprattutto nelle generazioni oggi prossime alla pensione.
Un altro esempio di regali elettorali sono le detrazioni fiscali concesse a questa o quella categoria nell’illusione che aiutino a sostenere gli investimenti, ma che in realtà sono concesse in base a logiche stratificate nel tempo e mai verificate nella loro efficacia. Lo stesso dicasi per alcune norme della recente legge sulla Concorrenza, come quelle sul rinnovo automatico dell’Rc auto, un regalo agli assicuratori e un danno per i consumatori.
Se fosse vero che questi regali preelettorali fanno vincere le elezioni, si potrebbero anche «capire». Non giustificare, ma «capire», in una logica poco lungimirante di razionalità politica.
Ma l’evidenza mostra che non è affatto detto che questi regali aiutino a vincere le elezioni: forse sì, forse no. Noi speriamo che il presidente del Consiglio sia sufficientemente lungimirante da non scardinare il bilancio e soprattutto il sistema pensionistico per (forse) aumentare di quale punto la percentuale di voti della sua parte politica.
Il Corriere della Sera – 13 agosto 2017