Trovarlo, il lavoro, è il primo problema, in un Paese in cui il tasso di occupazione per gli under 30 si ferma intorno al 33 per cento. Non a caso le anticipazioni sulla prossima legge di Bilancio parlano di nuovi incentivi alle assunzioni ma solo per i giovani. Tenerselo è la seconda sfida: lo scorso giugno, secondo l’Istat, i dipendenti a termine (leggi precari) hanno toccato quota 2,69 milioni, il valore più alto da quando sono disponibili le serie storiche. Ma la vera impresa è viverci, con quel lavoro. Perché i figli dei baby boomer guadagnano, in media, il 36% in meno dei padri. Ormai sono loro, e non i pensionati, la fascia a maggior rischio di povertà. E’ una dinamica che non riguarda solo l’Italia, se un rapporto pubblicato l’anno scorso dalla società di consulenza McKinsey arrivava alla conclusione che “il 65-70% dei nuclei familiari dei Paesi avanzati” tra 2005 e 2014 ha visto i propri redditi restare al palo o calare rispetto a quelli delle generazioni precedenti. La differenza è che oggi, da noi, anche chi ha in tasca una laurea e ha conquistato un contratto deve accontentarsi nei primi anni di lavoro di stipendi da fame. Non è un caso se l’anno scorso si sono trasferiti all’estero oltre 200mila italiani. E, secondo la Fondazione Bruno Visentini, il divario generazionale in termini di reddito e ricchezza è destinato a raddoppiare entro il 2030.
Se il capofamiglia è under 35 sul conto arriva il 36% in meno – Lo scenario che emerge mettendo insieme gli indicatori Istat sulla condizione economica delle giovani generazioni è chiaro: stanno sempre peggio. Prima della crisi, nel 2007, quasi il 39% dei nuclei con capofamiglia sotto i 35 anni erano classificati nel 40% della popolazione con i redditi più alti. Ora la percentuale è scesa di sei punti, mentre è aumentata dal 24% a oltre il 29% la percentuale di famiglie di giovani che si piazzano nel 20% degli italiani con gli introiti più bassi. Le cifre? Stando alle ultime rilevazioni, in media le famiglie degli under 35 vedono arrivare sul conto corrente ogni anno poco più di 26mila euro netti, contro gli oltre 35.400 dei 55-64enni: il 36% in meno. Nel Nord Ovest, dove il terziario è più forte e trovare un posto un po’ più facile, le cifre medie sono maggiori ma il divario risulta ancora più ampio: 30.400 euro per i nuclei dei giovani, 40.300 per quelli dei loro genitori. Il risultato è che nel 2016 più di una famiglia di giovani ogni 10 è finita sotto la linea di povertà assoluta, vale a dire che non poteva permettersi il minimo necessario per una vita dignitosa. Tra gli over 64 la percentuale ha invece conosciuto un calo costante, fino ad attestarsi al 3,9%. Se nulla cambierà il divario, secondo la Fondazione Bruno Visentini, non farà che aumentare: il rapporto “Il divario generazionale tra conflitti e solidarietà” prevede che la forbice si allargherà sempre di più fino a impedire l’emancipazione economica di un’intera generazione dai genitori.
Tra 2011 e 2016 aumentati solo i posti malpagati… – Per cercare di spiegare questa tendenza Eurofound, agenzia europea “per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro”, nel suo ultimo Jobs Monitor ha analizzato i cambiamenti della struttura occupazionale e le disuguaglianze salariali. Trovando che in Italia per l’intero quinquennio 2011-2016 l’occupazione è cresciuta grazie a un aumento dei posti meno pagati, il “primo quintile” (cioè il 20% dei lavori retribuiti con gli stipendi più bassi). In Germania, al contrario, il 2013 ha segnato uno spartiacque: fino a quell’anno i tedeschi hanno visto crescere soprattutto l’occupazione nel secondo quintile (che significa salari bassi, ma non i più bassi in assoluto), ma nei tre anni successivi sono stati creati 600mila posti a stipendio alto, nel quinto quintile, contro circa 180mila nel primo. Stessa tendenza in Gran Bretagna. E il grafico sull’Unione europea nel suo complesso mostra che tra 2013 e 2016 il Vecchio continente ha visto crescere le posizioni lavorative classificate nel quarto e quinto quintile più di quelle nelle fasce di stipendio inferiori. C’è da dire però che la particolarità italiana viene spiegata soprattutto con l’aumento dei lavoratori stranieri: su poco meno di 500mila nuovi posti a basso salario creati tra il 2011 e il secondo trimestre 2016, circa 300mila sono stati occupati da persone di origine extra europea e altri 100mila da immigrati arrivati da altri Stati Ue.
… e i laureati guadagnano meno che all’estero – L’aumento dei lavori umili, quindi, non basta per spiegare perché i giovani italiani guadagnino sempre meno. L’altro fattore è il calo delle retribuzioni anche per i posti ad alta specializzazione. In Italia, come evidenziato lo scorso anno in un discusso opuscolo del ministero dello Sviluppo per gli investitori stranieri, “un ingegnere
Tra 2007 e 2015 giù del 15% gli stipendi a un anno dalla laurea – Non solo: negli ultimi dieci anni le buste paga dei neolaureati si sono progressivamente alleggerite. Nel 2007, attestano le indagini del consorzio interuniversitario, chi aveva finito di studiare l’anno prima (laurea triennale) prendeva mediamente quasi 1.300 euro. Oggi la cifra è scesa nei dintorni dei 1.100 euro netti al mese, il 15% in meno. Con la laurea magistrale la cifra sale pochissimo, nell’ordine delle decine di euro.
Del resto, come ricordato di recente dal presidente Istat Giorgio Alleva, ben il 35,4% dei laureati ha un primo lavoro atipico, ovvero precario, contro il 21,2% di quanti hanno finito solo la scuola dell’obbligo. Il risultato è che, fatta 100 la retribuzione di un diplomato, in media un neolaureato italiano guadagna 114: un “premio” inferiore di 23 punti rispetto alla media Ue.
Forse anche per questo le iscrizioni all’università, dopo aver toccato un picco di 337mila nell’anno accademico 2003-2004, sono scese nel 2015-2016 a 271mila. Solo se si allarga l’analisi alle generazioni precedenti il gap di stipendio diventa corposo: l’Ocse calcola che gli introiti da lavoro di tutti i laureati italiani tra i 25 e i 64 anni sono in media superiori del 42% rispetto a quelli dei lavoratori solo diplomati. Anche in questo caso, comunque, il titolo di studio frutta meno che negli altri Paesi sviluppati. Nell’intera area Ocse il rapporto tra buste paga dei laureati e dei diplomati è di 155 a 100.
Nel 1977 occupati il 37% dei giovani. Oggi solo il 16% – Chi è giovane e un lavoro ce l’ha è comunque privilegiato, visto che nella fascia 15-24 anni il tasso di occupazione è poco sopra il 16% contro una media europea del 34% e il 41% dei Paesi Ocse. Le cose vanno meglio se si restringe il campo all’età post universitaria (dai 25 ai 34): 60,5% di occupati. Ma il confronto con il passato anche su questo fronte è impietoso: nei primi anni Duemila gli occupati erano stabilmente sopra il 70%. Andando ancora più indietro, a quando i padri dei Millennials si affacciavano sul mondo del lavoro, si trovano numeri da Eldorado. Nel 1977 i 15-24enni occupati erano il 36,8%, a fronte di un tasso di occupazione generale del 53,8%. E oggi chi resta fuori non necessariamente sta cercando un posto o si sta formando per trovarlo. Anzi: secondo il rapporto Employment and Social Developments in Europe della CommissioneUe diffuso lo scorso giugno, l’Italia è il Paese europeo con la percentuale più alta di giovani Neet. Quelli che non lavorano né studiano né fanno uno stage. Sono il 19,9% nella fascia 15-24 anni, contro una media dell’11,9%. Superano il 29% se si restringe l’analisi ai 20-24enni. Più che in Bulgaria, in Romania e in Grecia.
Il Fatto quotidiano – 13 agosto 2017