Sergio Rizzo. Sei anni, sono passati. Accadde a Roma, piazza Navona, davanti alla fontana dei Fiumi, opera del maestro Gian Lorenzo Bernini. Fu lì che l’alfiere di Sel, Paolo Cento, chiamò a raccolta il popolo dell’acqua pubblica tre giorni prima del referendum, per l’ultimo appello: «Vogliamo impedire che con le privatizzazioni aumentino a dismisura le tariffe e i profitti. Vogliamo che i controlli continuino e aumentino. L’acqua è un bene naturale e va tutelato». Mancò soltanto il tuffo.
Come sappiamo, al referendum del giugno 2011 prevalsero i “sì” con il 54 per cento. Sei anni dopo, siamo al punto di partenza. Le privatizzazioni, o presunte tali, non ci sono state. E i controlli non sono accresciuti, se non formalmente. Nei mesi successivi al referendum vennero affidati all’autorità per l’energia poteri regolatori anche sull’acqua. Senza tuttavia che questo abbia posto un argine ai profitti delle società di gestione, del resto tutte pubbliche, e soprattutto alle tariffe. Andate letteralmente in orbita dopo il voto. Più 9,8 per cento nel 2011, più 5,5 nel 2012, più 7,3 nel 2013, più 6,1 nel 2014, più 9,2 nel 2015, più 4,2 nel 2016. Non che in precedenza i gestori (sempre tutti pubblici) avessero usato con le famiglie i guanti bianchi. Ma dopo è stata crescita sfrenata. Al punto da portare l’incremento delle tariffe dell’acqua nel decennio concluso alla fine del 2016 a uno spettacolare 89,2 per cento. Più di qualunque altro servizio pubblico. Più del gas, fermo al 7,3 per cento. Più della luce: 24,4. Più dei trasporti urbani: 29,5. Più dei treni: 46,2. E anche più dei rifiuti: 52,1. Per non parlare dell’inflazione, che dal 2006 al 2016 non ha superato il 15,7 per cento, un quinto rispetto al rincaro delle tariffe idriche. Un aumento, per giunta, senza paragoni in Europa. Nei dieci anni compresi fra il 2004 e il 2014, secondo una elaborazione della Confartigianato, il costo dell’acqua nell’area dell’euro è cresciuto mediamente del 34,9 per cento: un dato peraltro influenzato pesantemente proprio dall’enorme rincaro delle tariffe italiane.
Come si spiega? Un mese fa uno studio targato International statistics for water services ha messo in fila i dati, arrivando alla conclusione che nel nostro Paese l’acqua è la meno cara del mondo. Qui si andrebbe da un minimo di 0,79 a un massimo di 1,94 dollari al metro cubo: niente a che vedere con i 4,57 dollari di Oslo, i 5,12 di Bruxelles, i 7 di Amsterdam o gli 8 di Copenaghen. E queste considerazioni potrebbero avere anche un senso, se solo la qualità del servizio fosse minimamente paragonabile. Cosa che invece non è.
Naturalmente, ci sono grandi differenze fra i vari pezzi d’Italia. Al Sud, secondo un copione purtroppo abituale, le cose vanno peggio che al Nord. Ma lo stato delle infrastrutture idriche nel nostro Paese è generalmente pietoso. La rete è ridotta a un colabrodo e le perdite raggiungono livelli stratosferici, superando abbondantemente un terzo dell’acqua nei tubi. Né gli aumenti poderosi delle tariffe registrati dopo il referendum hanno migliorato la situazione. Tutt’altro. Per anni ha fatto scalpore l’Acquedotto pugliese, il più grande d’Italia, con perdite dell’ordine del 40 per cento. Un’emorragia idrica mostruosa, ma ora addirittura superata, come si è scoperto adesso, perfino dalla capitale d’Italia. Se al Nord le perdite viaggiano intorno al 26 per cento, al Sud toccano il 45, e al Centro vanno anche più su: 46 per cento, dicono le statistiche del Blue book curato dalla fondazione Utilitatis con l’associazione dei gestori del servizio idrico. I buchi, dunque, si sono evidentemente allargati ancora a dispetto degli aumenti tariffari. Alimentando il sospetto dei difensori dell’acqua pubblica senza se e senza ma: e cioè che i rincari non siano stati utilizzati (se non marginalmente) per investire nelle reti, ridurre le perdite e migliorare la qualità del servizio, scaricandosi invece prevalentemente sul conto economico di società per azioni a controllo pubblico, spesso quotate in borsa.
Ma i numeri dicono tutto. In quel Blue book si sostiene che sarebbero necessari investimenti per 5 miliardi l’anno, circa 80 euro per abitante. Esagerata o no, è una stima che comunque cozza contro la realtà dei fatti. Gli investimenti reali non superano infatti i 30 euro per italiano, contro gli 88 della Francia, i 102 del Regno Unito e i 129 della Danimarca: dove l’acqua costa decisamente più cara, ma la rete è decisamente un’altra cosa. Qui il 60 per cento delle infrastrutture idriche ha un’età media superiore a 30 anni, e un quarto oltrepassa addirittura il mezzo secolo. Qualche mese fa il presidente dell’associazione di categoria Giovanni Valotti ha rivelato che ogni anno vengono rinnovati mediamente 3,8 metri di condotte per chilometro.
La deduzione logica è che servirebbero 250 anni per rifare le nostre reti disastrate. Tanto da far dire ai grillini, qualche giorno più tardi, che «le privatizzazioni nei servizi idrici hanno fallito perché i gestori privati non investono e danno servizi cattivi e costosi. Perciò bisogna tornare alla gestione pubblica». Sei anni dopo un referendum che ha sancito proprio quel principio: ma fallito anch’esso, se le cose stanno così. E si ricomincia daccapo.
Repubblica – 27 luglio 2017