di Sergio Rizzo. L’ultima rilevazione dell’Ocse sulle retribuzioni dei dirigenti pubblici dice quanto la trasparenza sia preziosa, e per alcuni versi anche dolorosa. Grazie a lei sappiamo che i mandarini italiani sono i più pagati del mondo sviluppato, con la sola esclusione dell’Australia.
Affermare tuttavia che con il tetto agli stipendi dei funzionari pubblici fissato tre anni fa in 240mila euro lordi l’anno non sia cambiato nulla sarebbe ingeneroso: qualche busta paga scandalosa (e immeritata) è stata per fortuna ridimensionata. Ma è sempre la media, con o senza quel tetto, che continua a fregarci.
I confronti parlano chiaro. La retribuzione media delle nostre figure burocratiche apicali è scesa fra il 2011 e il 2015 da 339.249 a 212.132 euro lordi. Il calo non è stato affatto trascurabile: meno 37,4 per cento. Nonostante una simile sforbiciata, però, siamo ancora ben al di sopra di quella dannata media dei Paesi sviluppati che aderiscono all’Ocse. Fissata, secondo la rilevazione di cui parliamo, in 160.627 dollari: 132.315 euro lordi.
Decisamente meglio è andata ai dirigenti di prima fascia, quelli immediatamente al di sotto del massimo livello apicale. Dopo l’introduzione del famoso tetto le loro retribuzioni medie, sempre secondo i calcoli dell’Ocse, sono infatti addirittura aumentate, seppur di poco: l’incremento dai 197.962 euro del 2011 ai 199.330 (lordi, ovvio) del 2015 è dello 0,7 per cento, che sale all’1,5 con la metodologia di calcolo Ocse, che tiene conto anche dei contributi previdenziali e dell’orario effettivo di lavoro. A questo proposito andrebbe ricordato che l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli, prendendo proprio spunto dal raffronto internazionale aveva previsto risparmi di mezzo miliardo l’anno già a partire dal 2014. Ebbene, almeno in questo caso è accaduto il contrario. E qui siamo di nuovo al punto cruciale: la trasparenza. In questo nuovo studio, che peraltro ricalca i risultati della precedente analisi del 2013, l’Ocse precisa che non tutti i Paesi riportano nelle loro analisi i dati effettivi, come fa invece l’Italia. Da quattro anni, infatti, qui vige il principio della pubblicità dei compensi dei dirigenti pubblici. È la conseguenza di un decreto, il numero 33 del 2013, che però non è stato digerito da tutti gli interessati. Ma è nulla al confronto di ciò che è successo nel momento in cui si è deciso di estendere l’obbligo di trasparenza anche alle informazioni patrimoniali. Allora sono scoppiate improvvise allergie. Letteralmente incontenibili.
La battaglia comincia il 25 maggio 2016, quando la Funzione pubblica approva un decreto legislativo che impone ai dirigenti la pubblicazione della propria situazione economica e reddituale sui siti internet ufficiali di ogni singola amministrazione. E con le variazioni intervenute anno dopo anno. Nello stesso provvedimento viene specificato che la cosa riguarda tutti, ma proprio tutti, gli incarichi di livello dirigenziale: per capirci, anche quelli che vengono assegnati per decisione politica.
Tanto basta per innescare l’immancabile ricorso al Tribunale amministrativo, che il 2 marzo sospende senza battere ciglio l’efficacia della nuova misura. Affermano i giudici che è necessario considerare la «consistenza delle questioni di costituzionalità e di compatibilità con le norme di diritto comunitario sollevate nel ricorso», specificando di aver preso la travagliata decisione dopo aver valutato «l’irreparabilità del danno paventato dai ricorrenti discendente dalla pubblicazione online, anche temporanea, dei dati per cui è causa». Non bastasse, ecco un altro ricorso, stavolta del sindacato al quale si associano pure quattro burocrati, che contesta le linee guida emanate dall’Autorità nazionale anticorruzione per l’attuazione della norma del 2013 che prevede la trasparenza degli atti relativi agli incarichi di natura politica e dirigenziale. A quel punto l’Anac di Raffaele Cantone non può che fermare le macchine e sospendere tutto, in attesa del sospirato giudizio di merito del Tar. Che si prende tutto il tempo necessario, e forse anche qualcosina in più: sette mesi.
I giudici amministrativi hanno fissato la relativa udienza per martedì 10 ottobre 2017. Ovvero, 222 giorni dopo aver deliberato la sospensiva e a quasi un anno e mezzo dal decreto che imporrebbe l’obbligo di far conoscere ai cittadini anche i patrimoni dei dirigenti pubblici e la loro evoluzione durante lo svolgimento dell’incarico. Mentre tutti continuano a ripetere che la trasparenza è il migliore antidoto contro il cancro della corruzione.
Repubblica – 17 luglio 2017