Il congelamento del decreto direttoriale dei ministeri dell’Economia e del Lavoro che, entro l’autunno, dovrebbe far scattare dal 2019 l’aumento di 5 mesi dell’età di pensionamento per vecchiaia, portandola da 66 anni e 7 mesi a 67 anni, potrebbe costare non meno di 1,2 miliardi l’anno. La cifra è stata diffusa ieri dall’Ansa che ha citato fonti vicine al dossier. Ma la stima potrebbe rivelarsi molto più bassa del reale, se si tiene conto del fatto che i 5 mesi in più si applicherebbero a tutte le gestioni e scatterebbero pure per il canale dei pensionamenti anticipati, portando i nuovi requisiti a 43 anni e 3 mesi (da 42 e 10 mesi) per gli uomini e 42 anni e 3 mesi (da 41 e 10 mesi) per le donne. Fonti governative non hanno voluto commentare mentre i presidenti delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato, Cesare Damiano (Pd) e Maurizio Sacconi (Epi), che nei giorni scorsi avevano chiesto al Governo di rinviare strutturalmente l’adeguamento automatico, hanno parlato di stime infondate. I due ex ministri hanno tra l’altro ricordato di non aver chiesto una cancellazione della norma ma un suo robusto rallentamento.
Il problema andrà comunque affrontato. Cgil, Cisl e Uil fanno fronte comune per chiedere il congelamento a 66 anni e 7 mesi. «L’unica e ultima possibilità di intervenire è la legge di Bilancio» sostengono. «Valuteremo con i sindacati se il grado della discussione tecnica ci consente un confronto politico» ha replicato il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. La partita si giocherà in questa seconda metà di luglio ma il quadro potrebbe essere più chiaro già lunedì, quando è in programma nella sede del Pd un convegno sulla riforma della previdenza. A parlarne saranno i protagonisti: Poletti, i leader di Cgil, Cisl e Uil. I Dem saranno rappresentati dal vicesegretario Maurizio Martina e dal responsabile per il lavoro, Tommaso Nannicini.
Certo è che la spesa pensionistica resta l’osservato speciale. Secondo dati Istat l’anno scorso le prestazioni di tipo previdenziale hanno determinato uscite per 300,1 miliardi di euro, pari al 17,9% del Pil (18% nel 2015) e il 38,9% della spesa pubblica corrente. Escludendo dal totale il Tfr, che può essere considerato come un salario differito, l’incidenza sul Pil si riduce al 17,3%. Rispetto al 2015 il totale della spesa cresce invece dell’1,3%, un incremento dovuto per metà al pagamento delle nuove pensioni. La Ragioneria generale dello Stato, che nei giorni scorsi ha pubblicato una versione anticipata del nuovo Rapporto sulle tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario, ha indicato come a partire dal 2015-2016, in presenza di una maggiore crescita del prodotto e la prosecuzione graduale dell’innalzamento dei requisiti minimi di pensionamento, il rapporto fra spesa pensionistica e Pil dovrebbe decrescere per attestarsi attorno al 15,4-15,5% entro il 2019. Negli anni successivi, arriverebbe invece la nuova fase di crescita, sostanzialmente determinata dal ritiro dal mercato del lavoro dei babyboomers (i nati negli anni ’50 e ’60), che porterebbe il rapporto al 16,3%, nel 2044. Naturalmente si tratta di prospettive a legislazione invariata.
Davide Colombo – Il Sole 24 Ore – 14 luglio 2017