Dieci milioni, 347mila e 936 fatture sono arrivate lo scorso anno negli uffici degli enti territoriali, ma non ne sono uscite: per la gioia delle imprese fornitrici, impegnate nella paziente attesa del pagamento. Il dato sui pagamenti incagliati nel 2016, per un valore di 41,7 miliardi, emerge dall’ultimo carotaggio della Ragioneria generale. Riguarda il cuore del problema, perché le aziende che lavorano con gli enti locali sono molto più numerose di chi fornisce la Pa centrale.
Una piccola parte dell’arretrato è fisiologico, perché le richieste di pagamento arrivate a fine anno possono essere state smaltite all’inizio del successivo senza violare le regole; ma nel frattempo altre fatture arrivano, depositandosi sull’arretrato.
Su un quadro complessivo, che comprenda anche la Pa centrale, mancano dati così di dettaglio, ma le indicazioni non sono confortanti: qualche giorno fa la Corte dei conti, nelle pieghe dell’ultimo giudizio di parificazione sul rendiconto generale, ha detto che lo Stato lo scorso anno è riuscito a smaltire solo il 59% dei debiti commerciali che ha contratto, una quota «per di più in riduzione rispetto agli anni precedenti». Nell’ultima relazione annuale, la Banca d’Italia calcola in tutto 64 miliardi di debiti commerciali inevasi dalla Pa in generale: una montagna che vale il 3,8 per cento del Pil.
I decreti sblocca-debiti che hanno scandito il triennio 2013-2015 hanno insomma offerto una boccata d’ossigeno sull’arretrato, al prezzo fra l’altro di un complicato meccanismo di anticipazioni da ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti che gli enti territoriali dovranno restituire da qui al 2045. Ma la macchina pubblica non è riuscita ad adeguarsi ai ritmi imposti dalle regole della Ue (pagamento in 30 giorni, salvo il raddoppio dei termini in casi eccezionali). Il problema rimane quindi ben presente nell’agenda europea, con il rischio di una procedura d’infrazione alla quale l’Italia ha risposto con l’avvio, sperimentale dal 1° luglio e strutturale dal prossimo anno, di un nuovo sistema telematico («Siope+», per gli addetti ai lavori) che segue passo per passo tutte le fatture: un termometro in grado di misurare puntualmente la febbre ma anche, almeno negli obiettivi dei promotori, di spingere le amministrazioni ad “autocorreggersi” alleviando la patologia.
La sfida non è semplice, anche perché gli ultimi numeri si riferiscono a un anno, il 2016, nel quale era ormai uscito di scena il Patto di stabilità, sempre invocato più o meno a proposito come l’ostacolo principale sulla strada verso un sistema normale di pagamenti alle imprese; e si era fermata anche la macchina dei tagli ai bilanci locali. Lo scorso anno, spiegano sempre i calcoli della Ragioneria, i Comuni avrebbero dovuto far pareggiare entrate e uscite, ma hanno superato l’obiettivo di 6,4 miliardi (2,4 miliardi se si tolgono gli accantonamenti obbligatori per la riforma della contabilità). I numeri dei risparmi di troppo e delle fatture non pagate non sono direttamente collegabili, ma l’immagine sostanziale è chiara: l’anno scorso i Comuni hanno superato abbondantemente gli obiettivi posti dalla manovra, ma a fine anno avevano ancora da pagare fatture per 33,7 miliardi. Altri 5,9 miliardi stazionavano nelle Regioni, 1,6 miliardi nelle Province e il resto nelle Città metropolitane.
Più che ai vincoli di finanza pubblica, allora, bisogna guardare alle difficoltà di cassa e soprattutto al diverso livello di efficienza amministrativa delle varie amministrazioni. Una geografia dettagliata per ora non esiste, perché l’ultimo aggiornamento «cruscotto dei pagamenti» realizzato dal ministero dell’Economia risale all’aprile 2016, e la nuova versione annunciata all’inizio di giugno nella Banca dati delle amministrazioni pubbliche non ha ancora visto la luce. Un’idea, però, può essere costruita avventurandosi nella ricerca ente per ente dell’«indicatore sulla tempestività dei pagamenti» che ogni amministrazione deve pubblicare sul proprio sito istituzionale per “denunciare” il proprio ritardo medio nell’onorare le fatture. È una ricerca complicata e ricca di delusioni, perché non tutti rispettano l’obbligo, ma significativa: a Milano, per esempio, il Comune dice di cavarsela in media con 14,6 giorni in più di quelli previsti dalle regole, mentre a Roma si sale a 55 giorni e a Napoli si schizza a 227,5 giorni medi. Sempre a Napoli, non va meglio ai fornitori dell’Asl n.1, che devono aspettare in media 257 giorni oltre i termini. Ci sono anche, rari, dei segni meno, cioè di indicatori negativi perché l’ente paga prima della scadenza: succede per esempio alla Regione Umbria (-25,7) o alla Lombardia (-22). Vedersi pagare il lavoro svolto, insomma, è questione anche di fortuna.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 11 luglio 2017