Vittorio Zambaldo. E stata una settimana orribile quella appena passata per gli allevatori della Lessinia che hanno visto crescere in maniera impressionante le vittime di razzie sugli animali domestici, cominciata lunedì 15 con una manzetta uccisa in località Ramponi di Selva di Pregno e attribuita a canide; proseguita a Frulle di là, contrada di Velo, su una manza e con quattro pecore a Rech di Selva di Pregno vittime dei lupi; conclusasi di nuovo a Velo con una vacca gravida uccisa in contrada Campe. Ce ne sarebbero altre (ad esempio un asino a Erbezzo), ma i capi non erano regolarmente registrati all’anagrafe zootecnica degli allevamenti e non vengono pertanto considerati nelle statistiche ufficiali per il risarcimento.
Ma i dati fanno comunque riflettere, anche perché il numero di 36 vittime accertate da inizio anno supera di due terzi quello di 11 dello stesso periodo dell’anno scorso. Più lupi? Più branchi distinti? Che cosa sta davvero succedendo? «Fa paura il fatto che finora le predazione erano state su capi che al massimo arrivano a due quintali di peso, quindi vitelli e manze. Adesso sono stati attaccati anche capi di cinque quintali come le vacche gravide», denunciano dall’associazione Salvaguardia rurale veneta che sta coordinando allevatori di Lessinia, Baldo, Altopiano di Asiago, Trevigiano e Bellunese, aree dove il lupo è stabile o ha fatto la sua comparsa con le prime predazioni.
«Il fatto che la vacca di Velo sia stata attribuita a canide e non a lupo, anche se non cambia nulla dal punto di vista dei risarcimenti è però una questione importante perché passa nell’opinione pubblica che ci siano cani randagi a fare il lavoro sporco dei lupi e che quindi la responsabilità non sia solo dei predatori. È un dubbio legittimo, ma che si può risolvere con un tampone che costa 30 euro, inviandolo per l’esame e la ricerca del Dna mitocondriale. Se risulterà che sono cani allora si devono prendere i giusti provvedimenti catturandoli e rinchiudendoli in strutture adeguate, come prevede la legge», sottolineano i membri dell’associazione.
Ma il problema per gli allevatori non sarebbe solo capire chi sia il predatore ma anche che cosa debbano fare con i propri capi: «Ci è stato ripetuto che a rischio erano solo i capi fino a due quintali: quindi questi sarebbero dovuti stare in stalla. Dopo la strage di due anni fa a Malga Moscarda dove in una sola razzia il proprietario perse dieci vitelli, l’alpeggio è stato abbandonato e lo scorso anno nessuno ha pascolato nel “nido della Moscarda”, come chiamiamo quella conca», aggiungono.
SI FANNO anche due conti: «Per tenere una vacca con vitello in stalla ci deve essere un salariato che li segue per il mangiare, il bere, la pulizia: sono costi aggiuntivi che non si conciliano con il crollo del valore del latte. Inoltre chi segue la linea biologica è comunque obbligato o a un certo numero di giorni per anno con i capi all’aperto e questo favorisce le predazioni».
Ci sarebbero i recinti ma gli associati rilevano diversi problemi: «Non è vero che funzionano a prescindere. I primi sono stati posati dopo Ferragosto, quando la stagione dell’alpeggio stava volgendo al termine e una valutazione andrebbe fatta almeno su un’intera stagione. Dicono che servono per la notte ma teniamo presente che le predazioni ultime sono avvenute fra le 6.30 e le 7 del mattino, quando l’allevatore è in stalla per la mungitura dalle 4,30 e poi libera i capi che sono stati munti. Gli orari delle operazioni, come risultano dai verbali di cui non riusciamo a venire in possesso pur essendo pubblici, darebbero molte informazioni su quali potrebbero essere davvero i sistemi di prevenzione più utili». Ma è anche una questione economica: «Montare un recinto a quattro fili, come viene richiesto, per un perimetro di un chilo metro che chiuda una superficie di due ettari e mezzo, richiede mediamente 44 ore e mezzo di lavoro, cioè 550 euro. La Regione monta il recinto a sue spese ma poi è l’allevatore a doverlo spostare ogni 15 giorni perché non si possono lasciare i capi sempre sullo stesso posto. Chi paga queste ulteriori spese?», chiedono dall’associazione Salvaguardia rurale veneta.
Dubbi vengono sollevati anche sulla reale efficacia del sistema recinti, perché un lupo potrebbe saltare agilmente il metro e venti di altezza del recinto o i capi che ci sono all’interno, spaventati dalla presenza del predatore all’esterno, che si aggira cercando chi divorare, potrebbero imbizzarrirsi e abbattere il recinto, facilitandogli la caccia».
Predazioni sono in aumento, secondo i responsabili dell’associazione, anche perché la presenza dei lupi ha rarefatto i selvatici: «Gli ungulati che sarebbero le loro prede naturali sono migrati giù nel fondovalle. Qui, in Lessinia, anche il lupo non ha un posto che non sia il bosco per starsene davvero lontano dagli animali domestici. E, con meno selvatici in giro, fatalmente i domestici diventano il suo pasto». ·
L’Arena – 23 maggio 2017