Non ditelo ai tedeschi, ma gli unici tre Paesi dell’eurozona in cui l’acquisto massiccio di titoli pubblici e privati da parte della Bce non sta spingendo l’inflazione sono Malta, Cipro e l’Italia. È stata Bloomberg a mettere in evidenza la correlazione negativa tra il cosiddetto quantitative easing, il programma di acquisto di bond da 60 miliardi al mese, e i prezzi italiani. E chi vorrebbe che Francoforte smettesse il prima possibile il piano di acquisti, subisce invece una delle correlazioni più forti: la Germania. Politicamente, una rogna, per Mario Draghi. E non solo per l’isteria che si scatena in Germania ogni volta che l’inflazione sale di mezzo decimale: l’impermeabilità dell’Italia al QE è viceversa un argomento a favore di chi sostiene che la Bce non si può sostituire a un Paese che continua a soffrire di una bassa crescita, una disoccupazione alta e dove le riforme strutturali hanno subito una battuta di arresto. La scarsa reattività dei prezzi non significa, oltretutto, che l’Italia non rischi di risentire pesantemente dell’uscita imminente della Bce dalla fase emergenziale. Secondo la stragrande maggioranza degli analisti, Mario Draghi potrebbe già segnalare a giugno un orizzonte ravvicinato in cui la Bce comincerà a comprare meno bond e ad alzare i tassi di interesse. Il 2018 sarà probabilmente l’anno della “normalizzazione”. Ma il suo ottimismo di mercoledì, quando ha detto che “la crisi è alle spalle”, è sembrato esorcizzare un rischio che l’eurozona deve ancora affrontare. Quello di una nuova crisi dell’Italia che contagi anche il resto dell’eurozona. È una preccupazione che nutrono anche ai piani alti del ministero delle Finanze tedesco, dove si è ricominciato a parlare insistentemente di Italia. Per capirne le ragioni, non bisogna guardare all’economia, ma ai conti pubblici. Alla fine di aprile, la Bce aveva in pancia 255 miliardi di euro di bond italiani, oltre il 10% del debito pubblico. E ieri in un rapporto di Astellon Capital si leggeva che dal 2008, ben l’88% del debito è stato comprato dalle banche italiane o dalla Bce. Una dipendenza pericolosa, se si guarda alle prossime mosse di Francoforte, ma soprattutto se si pensa che la rinuncia graduale ad acquistare titoli di Stato rimetterà l’Italia di nuovo nelle mani del mercato. E allora la domanda è: chi comprerà bond italiani?
L’umore non è dei migliori: alcuni dei maggiori fondi di investimento come Pioneer, Jupiter e Allianz, non sono più esposti verso l’Italia. E se Deutsche Asset Management ha ancora bond governativi italiani, di recente ha detto al Financial Times che potrebbe “riconsiderare” la sua esposizione. I motivi sono principalmente due: la fine del QE e il rialzo dei tassi provocheranno entrambi un aumento dei tassi di interesse che aggraverà l’onere sui 2.400 miliardi di debito pubblico e peserà sul disavanzo. Il secondo motivo è politico. Lo ha riassunto brutalmente nei giorni scorsi Mujtaba Rahman, direttore generale di Eurasia Group «Il più grande rischio in Europa si chiama Italia». E l’elemento chiave, per Rahman come per altri analisti è che la situazione politica è instabile e che «secondo noi il M5S vincerà le elezioni, l’anno prossimo».
Repubblica – 20 maggio 2017