Negli ultimi mesi ha trionfato sempre il segno meno. Le ore di cassa integrazione, il sostegno per chi ha perso il lavoro perché l’azienda è in crisi, sono in picchiata costante. L’ultimo dato, quello di aprile, è stato clamoroso: un crollo del 58% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. Meno della metà. Il bicchiere mezzo pieno dice che sono gli effetti della «ripresina», quel moderato aumento del Prodotto interno lordo sostenuto soprattutto dalle aziende orientate all’export. Il bicchiere mezzo vuoto, invece, dice che è il risultato della stretta arrivata con il Jobs act , la riforma che due anni fa ha accorciato la durata della cassa integrazione e reso meno scontata la sua concessione. Una stretta troppo decisa? Ufficialmente il governo dice che va bene così. Ma nelle stanze dei ministeri (e dei partiti) si è accesa la lucina rossa. Per questo, in modo riservato, è allo studio un intervento correttivo, marcia indietro o semplice restyling a seconda dei punti di vista.
L’ipotesi prevede una parziale reintroduzione della cassa in deroga, la scialuppa di salvataggio per le crisi più lunghe, quella utilizzata quando tutte le altre forme di sostegno non possono più essere concesse perché i termini sono scaduti. Il Jobs act l’ha cancellata, anche se ci sono ancora delle code delle vecchie autorizzazioni e sono possibili eccezioni per le cosiddette aree di crisi complessa. L’idea è di reintrodurre il principio della deroga, ma con un altro nome. Cosa vuol dire? Prima del Jobs act la cassa integrazione poteva durare fino a quattro anni. Oggi di regola non può superare i due anni, al massimo tre se viene abbinata ai contratti di solidarietà. I due nuovi limiti potrebbero essere sforati sulla base di una decisione da prendere caso per caso. Un’altra ipotesi sul tavolo riguarda la mobilità, il sussidio fino a 48 mesi che poteva essere concesso agli over 50 che avevano perso il lavoro e già utilizzato tutti gli altri ammortizzatori sociali. La mobilità non c’è più dall’inizio dell’anno, stavolta per effetto non del Jobs act ma della riforma del lavoro fatta nel 2012 dal governo Monti. Anche qui si studia un parziale ritorno al passato, un periodo transitorio con la mobilità da concedere caso per caso, come strumento straordinario da discutere anche con i sindacati.
Al di là degli aspetti tecnici, però, i due correttivi allo studio hanno un chiaro significato politico. Non solo per guadagnare consenso in vista delle elezioni, visto che un disoccupato senza rete protettiva difficilmente tifa per i partiti di governo. Ma anche perché, nelle statistiche sul lavoro che diventano sempre terreno di scontro politico, chi è in cassa integrazione non viene conteggiato tra i disoccupati.
Lorenzo Salvia – Il Corriere della Sera – 21 maggio 2017