di Dario Di Vico. L’Istat vuole produrre sociologia. Aveva iniziato nel Rapporto dello scorso anno con lo studio dell’avvicendarsi delle generazioni, nel 2017 però l’istituto si è posto un obiettivo più ambizioso: riscrivere e aggiornare la mappa dei principali gruppi nei quali si suddivide la società italiana. Il confronto è con l’elaborazione di Paolo Sylos Labini e con il saggio sulle classi sociali della metà degli anni 70 che classificava i gruppi a partire dai rapporti di produzione, negli anni 90 si sono imposti invece i lavori del sociologo Antonio Schizzerotto imperniati soprattutto sulla professione degli occupati. Ora l’Istat adotta per la classificazione una pluralità di caratteristiche che prendono in considerazione il reddito, l’istruzione, la partecipazione sociale, la posizione nel mercato del lavoro, l’ampiezza della famiglia, la cittadinanza e il luogo di residenza.
Il ruolo della famiglia
Per tutti questi motivi l’esperimento farà discutere animatamente sociologi ed economisti. I gruppi individuati sono nove e vale la pena elencarli per le tante novità che emergono: la classe dirigente, le pensioni d’argento, le famiglie di impiegati, le famiglie degli operai in pensione, le famiglie tradizionali della provincia, i giovani blue-collar, le donne anziane sole e i giovani disoccupati, le famiglie a basso reddito di soli italiani e le famiglie a basso reddito con stranieri.
Gli operai dunque si suddividono in due gruppi per di più «a reddito medio», la piccola borghesia sparisce così come i ceti medi di Sylos Labini, i pensionati da soli (!) danno vita ad altri due gruppi e il peso quantitativo degli impiegati è ragguardevole. Come è facile constatare poi il sostantivo ricorrente è «famiglia», non per una sorta di omaggio alla tradizione culturale italiana ma perché viene individuato come il soggetto che pur nella piena modernità continua a gestire e redistribuire gran parte delle risorse. Assorbendo peraltro al suo interno il conflitto intergenerazionale.
Cominciamo dalla classe operaia che perde la tradizionale identità collettiva che tanto ha contato nella politica del ‘900 e si divide in più gruppi situati però dentro il perimetro delle «famiglie a reddito medio». Le giovani tute blu sono un gruppo formato da poco più di 3 milioni di famiglie e 6,2 milioni di individui, hanno un contratto a tempo indeterminato e lavorano nell’industria, sono spesso coppie senza figli o persone sole, un grado elevato di instabilità coniugale, risiedono prevalentemente nelle regioni settentrionali. Il gruppo delle famiglie degli operai in pensione è molto più corposo (5,8 milioni di nuclei e 10,5 milioni di individui), è presente per lo più nei piccoli centri, ha quasi sempre la casa di proprietà, non ha più i figli conviventi e però dal punto di vista sanitario presenta criticità per eccesso di peso, sedentarietà e consumo di alcol.
A basso reddito
Quali sono invece i gruppi considerati a basso reddito? L’Istat ne individua ben quattro: a) famiglie con stranieri; b) famiglie povere di soli italiani; c) famiglie della provincia; d) anziane sole e giovani disoccupati. In totale fanno più di 8 milioni di nuclei e 22 milioni di individui. È interessante in questo caso sottolineare come la distanza rispetto agli altri gruppi emerga in maniera omogenea non solo se si prendono in considerazione i redditi ma anche la cittadinanza, la residenza territoriale e il (basso) profilo culturale.
Arriviamo alle famiglie che l’Istat definisce «benestanti» e sono formate da tre gruppi: gli impiegati, i pensionati d’argento e la classe dirigente. Il gruppo degli impiegati è consistente (4,6 milioni di famiglie e 12,2 di individui), è localizzato in prevalenza nel Centro-nord, possiede la casa dove abita e si caratterizza per una partecipazione attiva alla vita politica del Paese. Le pensioni d’argento (non privilegiate ma protette dalle favorevoli norme del passato) rimandano a 2,4 milioni di famiglie e per lo più a ex imprenditori ed ex dirigenti non laureati che hanno buoni consumi culturali e un forte impegno sociale.
Le vecchie élite
Infine la classe dirigente (l’Istat ha prudentemente evitato di usare il termine «élite»): ha un reddito del 70% superiore alla media e detiene il 12,2% del reddito totale. Parliamo di 1,8 milioni di famiglie capeggiate per lo più da imprenditori, dirigenti e quadri con titolo universitario che si caratterizzano per una maggiore partecipazione politica/sociale e per un «comportamento culturale pervasivo».
Con l’insieme di questa classificazione l’Istat ha operato una sorta di «seconda lavorazione» dell’enorme quantità di dati che possiede arricchendo sicuramente il dibattito sociologico corrente, anche perché fornisce materiale per una mappatura delle disuguaglianze non monopolizzata dalle sole differenze di reddito e dall’indice di Gini. Ed è sicuramente un passo avanti.
Il Corriere della Sera – 18 maggio 2017