«Qui finisce che tra dieci anni non pescherà più nessuno. Per fortuna mio figlio ha scelto un altro lavoro: monta frigoriferi sulle barche ed è contento così». Franco Comes ha ancora il viso colorato dal vento e gli occhi liquidi per la fatica di quattro giorni e quattro notti passati in mare. Ha cinquantaquattro anni e la sua famiglia vive di pesce spada da sempre. Seduto nella cabina di comando del Sandokan II, che fluttua lentamente appoggiato al molo del porto di Monopoli, racconta come niente fosse cosa significa “cavare” dal mare animali pesanti fino a 150 chili, attenti ai guizzi improvvisi della spada «che se ti prende ti spacca la testa…». Il Cristo dell’immaginetta appesa alla parete sembra scrutare l’orizzonte, da dove avanzano nuvole color antracite. Per domani è previsto mare grosso, le barche rimarranno a terra.
Ma non è l’aria di burrasca ad angustiare Franco e, come lui, migliaia di pescatori italiani. Si sta per scatenare l’ennesima guerra tra poveri che rischia di bruciare posti di lavoro, culture, economie, comunità. Perché entro giugno l’Europa e l’Italia dovranno distribuire, per la prima volta, le quote sulla pesca del pesce spada nel Mediterraneo. Sarà l’esito di uno scontro serrato tra governi, con il nostro Paese a pagare la debolezza di sempre davanti al peso e alle alleanze tra le altre nazioni (comprese quelle fuori dall’Unione, come Turchia, Tunisia, Algeria…). E poi, di riflesso, sarà battaglia tra i pescatori (anche loro, sia chiaro, non esenti da colpe) per spartirsi quanto pesce le regole lasceranno a disposizione. E’ andata così gli anni passati per le quote sul tonno rosso. Succederà di nuovo da adesso per lo spada.
Tutto nasce dalle sacrosante ragioni ecologiche, con i dati scientifici a dimostrare come gli ultimi 30 anni di sfruttamento abbiano ridotto la specie del 70%, nonostante la scomparsa (almeno per legge) delle spadare, con le loro reti, e il passaggio alla tecnica meno impattante con gli ami del “palangaro”.
L’Iccat (l’organismo internazionale per la tutela dei tunnidi nell’Atlantico) ha così introdotto un tetto alle catture di pesce spada al quale devono adeguarsi l’Unione europea e gli altri paesi che si affacciano sul Mediterraneo dove la quota complessiva è stata fissata a 10.500 tonnellate di produzione annua (che si ridurrà ulteriormente di un 3% ogni anno dal 2018 al 2022), 7.400 delle quali riservate alla Ue. Questa torta va ora divisa tra i vari Paesi e la fetta che spetterà ad ognuno andrà poi spartita tra i singoli pescatori. Le quote, ad ogni livello, vengono stabilite in proporzione al pescato negli anni precedenti ed è qui, oltre che nel peso specifico politico del nostro Stato in Europa, il nodo della possibile sconfitta italiana: la produzione usata come parametro infatti è quella regolarmente fatturata, mentre resta fuori tutta la produzione “in nero” (che in Italia oscilla tra il 5 e il 30%, a seconda delle zone) e la cosiddetta pesca non professionale, che spesso è solo un escamotage per aggirare gli obblighi fiscali. Dunque, le quote comprimeranno inevitabilmente la produzione effettiva del nostro Paese e, di riflesso, anche quella dei pescatori più “virtuosi”.
Un ridimensionamento doloroso per la pesca italiana dello spada – quasi 900 pescherecci, oltre 3000 imbarcati e una produzione totale annua di 4.200 tonnellate pari a 40 milioni di euro che oggi rappresenta più del 40% dell’intero mercato europeo, seguita da Spagna e Grecia.
«Io ai pescatori lo dico da sempre: fatturate, fatturate…se no a rimetterci alla fine siete voi», spiega Giancarlo Sardano, segretario di una cooperativa di Monopoli che manda in mare quaranta barche tra strascico e palangari. A Monopoli c’è una delle flotte più consistenti per la pesca dello spada, se la batte con altri porti italiani a cominciare da quelli siciliani. E se parli ai pescatori delle ragioni ambientaliste che sono all’origine della politica delle quote, ti rispondono che nessuno come loro conosce il mare e ha a cuore la salvaguardia delle specie: «I pesci ci danno lo stipendio – si accalora Franco Comes – figuratevi se possiamo essere noi a fregarcene dell’ambiente. La colpa è del cambiamento del clima, dell’aumento della temperatura del mare. Adesso qui tiriamo su tonnellate di gamberi rosa che fino a qualche anno fa arrivavano a malapena in Sicilia». «Ci autoregolamentiamo da soli – aggiunge Sardano –. Ad esempio, anche se non rientrava nelle quote, da tempo non peschiamo più l’ala lunga». Ed è proprio la storia delle quote sul tonno rosso a far temere il peggio ai pescatori dello spada: «Il sistema dei tetti funziona, c’è stato un ripopolamento importante di tonni – ammette ancora Sardano – ormai arrivano fin dentro i porti, quasi li accarezziamo come fossero cagnolini. Però le quote sono state distribuite male, c’è chi pesca tanto e chi è senza autorizzazione ed è costretto a ributtare in mare il pesce, che peraltro ormai è morto, o di donarlo in beneficienza, per evitare multe che arrivano fino a 150.000 euro o al ritiro della licenza ».
Franco, nella cabina di comando del Sandokan II, ci mostra come funziona il log-book, il tablet da tenere obbligatoriamente a bordo per registrare nel dettaglio i numeri e le caratteristiche di ogni battuta di pesca, che qui chiamano “bordata”: «Ma chi fa le regole ha mai messo piede su un peschereccio? Lo sa cosa significa usare un computer mentre tiriamo su le reti con il mare in burrasca e la nave balla sulle onde? Poi sbagli di una riga e ti arriva una multa che ti costringe a chiudere l’attività…».
Un pesce spada può pesare fino a 150 chili e nell’Adriatico la taglia media è di 50 chili. La quotazione oscilla tra gli 8 e i 12 euro al chilo, dipende dal momento del mercato e dalle dimensioni del pesce: considerando che una “bordata” soddisfacente produce intorno ai 1500 chili, dunque un valore di 15mila euro, e che vanno detratti circa 4mila euro di costi (gasolio in primis), alla fine di almeno cinque giorni in mare ci sono pressappoco 10mila euro da dividere a metà tra armatore ed equipaggio (in media 5 persone), in base al “contratto alla parte” che regola il settore della pesca. Normalmente in un anno, tra condizioni metereologiche e fermi biologici vari, non si fanno più di 30 bordate, per un totale di 80/100 giorni lavorativi.
«Il fatto è che ormai noi pescatori siamo considerati dei mezzi delinquenti, quasi ci vergogniamo ad uscire in mare», ironizza Peppino Colapietro, il presidente della cooperativa di Mola, un altro porto qualche chilometro più a nord di Monopoli, mentre guarda rientrare i pochi pescherecci rimasti in attività. «A Molfetta, vicino Bari – prosegue Peppino – fino a vent’anni fa si costruivano centinaia di barche. Le strade erano piene di cantieri. Adesso in molti rottamano il peschereccio e vanno a lavorare in Albania. Li capisco: mio figlio quando sale a bordo per una bordata sembra uno scienziato, in una mano ha una valigetta piena di documenti e nell’altra due computer portatili. Ma a noi interessa solo pescare e portare la pagnotta a casa. Quando la sera rientriamo non abbiamo la forza e la voglia di metterci a studiare regole complicate e a fare conteggi».
Attraccato sulla punta del molo, solitario, ondeggia quasi impercettibilmente un peschereccio con la prua decorata da un pesce spada guizzante. A bordo non c’è nessuno: «Era l’unico armatore rimasto che pescava spada – racconta Colapietro – ma ha mollato anche lui: con le quote in arrivo non conviene più, troppo rischioso». Intanto le barche sono tutte rientrate e hanno già scaricato le casse di naselli, gamberi e seppie. Intorno c’è il silenzio. Non si contano più di cinquanta scafi: «Mi piange il cuore, vent’anni fa erano duecento…», dice Peppino prima di entrare nello stanzone del mercato dove, invece, le urla e le battute in pugliese stretto sono quelle di sempre. Voci di un mondo che lotta contro il declino.
Repubblica – 15 maggio 2017