Sandra Riccio. Integrare la pensione pubblica, per mantenere un adeguato tenore di vita, è una delle priorità che le famiglie italiane dovranno affrontare in maniera sempre più seria nei prossimi anni. Eppure per molti, la previdenza rimane ancora qualche cosa di ignoto. Molti lavoratori sono totalmente all’oscuro di quanto potrà valere un giorno il loro assegno di pensione. Non sanno a quanto ammonta il versamento che fanno ogni anno nelle casse dell’Inps e a quanto sia arrivato il loro «montante», vale a dire l’insieme di contributi versati e rivalutati negli anni. Tanto meno si preoccupano di cercare rinforzi per la loro vecchiaia. Insomma quella degli italiani è ancora una previdenza al buio.
Eppure i soldi non mancano. I recenti numeri di Bankitalia confermano, infatti, che siamo un popolo di grandi risparmiatori. Non tutti purtroppo riescono a mettere da parte qualche cosa ma è un fatto che ogni mese, sui conti correnti e sui libretti di risparmio degli italiani, affluiscono miliardi e miliardi di euro. A febbraio, i miliardi parcheggiati hanno raggiunto la cifra record di 1428. È però questo un modo di risparmiare che ha poco a vedere con la pianificazione e che è pure penalizzato dai tassi a zero di questi ultimi anni.
Qualcosina si muove però, complice anche la Busta Arancione arrivata l’anno scorso nelle case di milioni di famiglie. Conteneva le proiezioni sulla pensione futura e per alcuni ha voluto dire un brutto risveglio. Qualcuno ha pensato di correre ai ripari e ha aperto una pensione complementare. Il numero delle adesioni alla previdenza complementare è, infatti, cresciuto. Lo dicono i dati Covip sul 2016 che hanno contato 557 mila iscritti in più a quota 7,8 milioni (+7,7%). Sono numeri ancora piccoli però.
Ma come si comportano le forme previdenziali alternative? La materia purtroppo non è semplice. Occorre distinguere principalmente tra Fondi negoziali chiusi (previsti per alcune categorie di lavoratori), Fondi aperti (offerti da banche e assicurazioni) e le polizze Pip (promosse soprattutto da agenti e assicurazioni ma anche dalle banche). Semplificando molto, tutte queste forme di previdenza pensionistica investono in azioni, in obbligazioni e titoli di Stato, oppure in un mix di questi strumenti. Il lavoratore può scegliere tra le diverse proposte. In genere i prodotti che investono maggiormente in azioni rendono di più ma è chiaro che sono più a rischio.
Guardando ai numeri, in questi ultimi mesi queste forme pensionistiche hanno un po’ risentito del calo dei prezzi delle obbligazioni. «Si tratta comunque di investimenti di lunghissimo termine che si muovono su orizzonti di diversi decenni – ricorda Giuseppe Romano, direttore ufficio studi Consultique -. Vuol dire che le cedole che pagano le obbligazioni negli anni neutralizzeranno l’effetto del calo di prezzo».
Chi si è messo in luce è invece il Tfr. Il Trattamento di fine rapporto, nei primi tre mesi di quest’anno ha fruttato lo 0,80% contro, per fare un esempio, il -0,08% delle forme garantite dei fondi negoziali. L’anno scorso, invece, il Tfr aveva perso la gara con le altre forme pensionistiche. Nel 2016, i fondi negoziali e i fondi aperti hanno reso in media, rispettivamente, il 2,7 e il 2,2%. I Pip «nuovi» di ramo III hanno fatto +3,6%. Il Tfr si è rivalutato, al netto dell’imposta sostitutiva, dell’1,5%.
In questi ultimi tre mesi il Tfr ha beneficiato del rialzo dell’inflazione a cui è ancorato. Sale, per una parte, insieme al rialzo dei prezzi. Negli anni Tfr e forme previdenziali complementari si sono sfidati con sorti alterne. Non sono mancati forti sbalzi (vedi tabella). Nel 2008 per esempio, anno della crisi Lehman Brothers, i fondi negoziali hanno perso il 6% e quelli aperti il 14%. Il Tfr invece ha guadagnato il 2,7%. Nel 2014, anno di inflazione a zero e di Borse al rialzo, i fondi negoziali e quelli aperti hanno fruttato il 7% mentre il Tfr si è limitato al +1,3%.
La Stampa – 15 maggio 2017