Finisce con una decisione salomonica il caso Anac scoppiato il 13 aprile. Ma nella sostanza i poteri di Raffaele Cantone vengono dimezzati. Quel giorno il consiglio dei ministri – a sua insaputa verrebbe da dire visto che molti dicasteri si erano girati dall’altra parte – aveva cancellato il principale strumento di azione al capo dell’Autorità anticorruzione: la sospensione diretta di un appalto sospetto. Ira di Renzi, ministri in fuga dalla scelta, telefonata di Paolo Gentiloni da Washington a Cantone per promettere un rimedio a breve. La vicenda aveva rappresentato uno degli incidenti che da settimane sta mettendo alla prova il rapporto tra il Pd e il suo stesso presidente del Consiglio.
Il rimedio è arrivato sul tavolo dell’esecutivo giovedì sera con un emendamento alla manovrina firmato dal ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio. E a sorpresa il nuovo testo dà ragione agli uffici tecnici di Palazzo Chigi, guidati dalla sottosegretaria Maria Elena Boschi, che avevano sollevato dei dubbi sulla legittimità dei poteri di Anac. E torto, perciò, a chi aveva preso le difese di Cantone. A quanto risulta, tuttavia, l’emendamento stavolta è stato concordato con il magistrato che dal 2014 è alla guida dell’Anticorruzione.
La correzione è avvenuta sulla base di un parere del Consiglio di Stato, che non era quindi ininfluente come gridò allarmato il senatore Stefano Esposito (Pd), ma segnalava sostanzialmente come il vecchio comma 2 fosse incostituzionale e contrario alle normative europee. Perplessità di questo genere, tra l’altro, sarebbero state condivise anche dagli uffici del Quirinale.
Il comma attribuiva ad Anac il potere di sospendere automaticamente gli atti ovvero l’assegnazione di un appalto e, in caso di non osservanza della sospensione, di erogare sanzioni per la ditta appaltatrice. Una lettera scarlatta, a prescindere dalle verifiche successive. Era perciò un potere diretto, pari a quello della magistratura. In parole povere ma tecniche: “paragiurisdizionale”.
Da adesso in poi Cantone potrà esprimere un parere, segnalare i vizi di legittimità riscontrati e, se l’appalto non viene fermato, può allora ricorrere al tribunale amministrativo. Gli viene tolto il cartellino rosso e lasciato quello giallo. Per l’espulsione avrà bisogno del giudizio di un altro arbitro, la magistratura amministrativa.
Dunque il problema esisteva e se la cancellazione dello strumento era una mossa avventata che “svuotava” di senso l’Anac, una sua modulazione si è resa necessaria per regolarizzare il codice degli appalti.
Caso chiuso? Non è detto, perché all’Anticorruzione resta la vigilanza ma gli viene sottratto la deterrenza di un atto immediato e vincolante. La parola ora passa al Parlamento che esaminerà nei prossimi giorni la manovrina per convertire il decreto in legge. Ma stavolta il passaggio con Cantone è stato fatto e l’emendamento è frutto di un confronto con lui. Si può notare infatti che il ministero ha reintrodotto un’altra norma cancellata il 13 aprile nel concitato passaggio del testo dal pre-consiglio al consiglio dei ministri vero e proprio. Riguarda l’autonomia dell’Anac sugli stipendi del personale. Gli uffici legislativi di Palazzo Chigi cassarono quel passaggio con la motivazione dipietresca: che c’azzeccano gli emolumenti dell’authority con il codice degli appalti? Ma le Infrastrutture adesso ripropongono questa “indipendenza”. Nel rispetto del tetto sugli stipendi dei pubblici amministratori, l’Anac deciderà da sola chi pagare di più e quanto. Non è uno strumento da poco per attirare personale qualificato e competenze alte. Resta la domanda: è un risarcimento per i poteri dimezzati sugli appalti?
Repubblica – 14 maggio 2017