di Enrico Marro. L’ultima volta che l’Iva aumentò fu il primo ottobre 2013, quando l’aliquota massima passò dal 21% al 22%. Già allora fu scontro tra i partiti. Era fresco il ricordo dell’incremento al 21% deciso nella drammatica estate del 2011 dal governo Berlusconi per evitare il commissariamento dell’Italia e perseguire il pareggio di bilancio che, pensate un po’, allora era previsto nel 2013 e ora nel 2019. A dicembre 2011, Pdl e Pd, che insieme sostenevano il governo Monti, insieme avevano votato un nuovo aumento dell’Iva da ottobre 2012 poi posticipato a luglio 2013. Infine era arrivato il governo Letta che aveva spostato il rincaro a ottobre appunto, senza eliminarlo come ora avrebbe voluto Alfano. Insomma, l’Iva croce e delizia dei governi: tassa quanto mai impopolare, ma che assicura grandi e immediati ritorni di gettito.
Quattro aliquote
Basti pensare che ogni punto di aumento dell’aliquota massima frutta più di 4 miliardi l’anno e che ogni punto in più sull’aliquota intermedia (oggi al 10%) vale circa 2 miliardi. Ecco perché gli aumenti che dovrebbero scattare dal 2018 (dal 22 al 25% e dal 10 al 13%) porterebbero nelle casse dell’erario 19,5 miliardi di euro. Strutturali. Che salirebbero a 23 miliardi nel 2019 quando l’aliquota massima dovrebbe passare al 25,9%. E l’Italia, così, staccherebbe gli altri Paesi dell’Unione Europea, dove già oggi si posiziona ai vertici. Anzi, restringendo l’analisi all’area euro, solo 4 Paesi hanno un prelievo superiore al nostro: Finlandia col 24% e Grecia, Irlanda e Portogallo col 23%. La Francia è al 20%. La Germania al 19%, ma non ha l’aliquota agevolata, quella del 4%, che in Italia copre pane, latte, olio e altri alimentari e beni di prima necessità.
Da noi di aliquote ce ne sono 4. Oltre a quella agevolata; c’è quella del 5% sulle prestazioni socio-sanitarie, assistenziali ed educative rese dalle cooperative sociali; quella del 10% su beni come carne, pesce, birra e prestazioni alberghiere e di ristorazione; quella del 22% che colpisce il resto, dal vino agli articoli di lusso, passando per elettrodomestici e servizi di riparazione. In Germania le aliquote sono solo due: 7 e 19%.
La tassa più evasa
Il confronto con l’Europa ha senso perché l’Iva, l’imposta sul valore aggiunto, fu introdotta in Italia al posto dell’Ige (imposta generale sulle entrate) nel 1972 in base a norme comunitarie (infatti concorre a finanziare il bilancio Ue). All’inizio l’aliquota era di appena il 12%. Il prelievo colpisce l’incremento di valore che si realizza su beni e servizi in tutti i passaggi dalla produzione al consumo. Ma poiché in ogni passaggio l’acquirente può scaricare fiscalmente l’Iva, alla fine c’è uno solo che subisce l’imposta, il consumatore finale. Che paga ma non se ne accorge. Il prezzo, infatti, è Iva inclusa. Chi compra raramente sa quanti euro sta pagando di Iva. Forse per questo si chiama imposta «indiretta». Ma potrebbe definirsi anche una tassa nascosta, fate voi. Chiunque sia andato negli Stati Uniti ha provato la differenza. Lì quando fai un acquisto vedi un prezzo ma poi alla cassa paghi un po’ di più perché ti caricano la Vat, Value added tax, che, ci tengono a farti vedere, è una tassa. Si chiama trasparenza. Ma torniamo in Italia. Nel 2016 l’erario ha incassato tributi per 472 miliardi. Dopo l’Irpef, che da sola ha fruttato 180,6 miliardi, c’è l’Iva con 124,5 miliardi. L’Iva però è anche la tassa più evasa. Lo stesso governo ha calcolato che sono oltre 40 i miliardi che non entrano alla voce Iva ogni anno, circa un terzo di tutta l’evasione. La direttrice dell’Agenzia delle entrare, Rossella Orlandi, ha affermato: «Il problema del Paese è un’evasione Iva doppia rispetto a quella europea». Colpa di una struttura economica frammentata e di controlli scarsi.
L’escamotage
Se è così non si capisce perché anziché aumentare l’Iva non si colpiscano gli evasori. O meglio, la spiegazione è semplice e sta nella locuzione «clausole di salvaguardia». Un escamotage richiesto dalla commissione europea ai governi quando non siano in grado di presentare manovre con coperture convincenti. La clausola significa, per esempio, che se non si riuscirà a tagliare le spese di x, automaticamente scatterà un aumento equivalente di entrate. Così è dai governi Berlusconi in poi che tutti hanno fatto ricorso al paracadute dell’Iva. Compreso il governo Renzi. Le clausole che dovrebbero scattare nel 2018 sono state infatti introdotte con la legge di Stabilità 2015 poi rimodulata dall’ultima legge di Bilancio.
Una scelta tardiva?
Ora il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha detto che un aumento almeno parziale dell’Iva sarebbe tecnicamente utile a sostenere la «svalutazione interna», aiutando cioè le imprese che esportano (l’Iva non colpisce l’export) e raccogliendo risorse per sgravare le tasse sul lavoro. Lo spostamento del prelievo dal lavoro ai consumi è tra l’altro una raccomandazione della Commissione europea. La tesi è che quello che i consumatori perdono per l’aumento dei prezzi lo recuperano col taglio delle tasse. Bene, ma se anche fosse così, non sarebbe stato meglio pensarci prima, quando l’inflazione era a zero anziché adesso che il prezzo del «carrello della spesa» (i beni più consumati secondo l’Istat) è aumentato a febbraio del 3,1% in un anno?
Il Corriere della Sera – 19 aprile 2017