Più che una manovrina primaverile, quella approvata ieri insieme al Def, il documento di economia e finanza del governo, è un vero e proprio anticipo della maxi-manovra autunnale. Il decreto non soltanto coprirà i 3,4 miliardi di deficit extra del 2017, ma ridurrà di circa 5 miliardi anche il conto del 2018, rendendo l’autunno del governo probabilmente un po’ meno caldo del previsto. L’intenzione, insomma, è quella di tenere fuori i conti pubblici dal clima di campagna elettorale che si respirerà alla fine dell’anno. Se ai 5 miliardi della manovrina se ne aggiungeranno almeno altrettanti di nuova flessibilità da parte dell’Europa, la somma da trovare per far quadrare i conti pubblici nel 2018 evitando di far salire le aliquote Iva sarà più che dimezzata. La prima sfida è questa. La seconda è percorrere questo ultimo tratto della legislatura sul solco di quanto fatto dal governo Renzi. O quasi. Perché Gentiloni e Padoan hanno definitivamente archiviato l’ultimo pezzo del cronoprogramma dell’ex sindaco di Firenze, ossia la riduzione dell’Irpef, per sostituirlo con un abbassamento delle tasse sul lavoro. Il cuneo fiscale sarà tagliato per i giovani e per le donne, spiega il Def.
LE POSIZIONI
Ieri il premier Paolo Gentiloni ha difeso l’impianto del documento, spiegando che non contiene una «stangata» sulle tasse e sui prezzi. Anzi, si correggono i conti, ha detto, «rilanciando gli investimenti». Gentiloni ha anche lanciato qualche stilettata a Bruxelles in vista della manovra d’autunno, chiedendo che le regole del patto di stabilità non siano «una camicia di forza». Una linea questa, ha spiegato, condivisa da tanti paesi europei. Intanto per il capitolo sugli statali si apre di nuovo il nodo risorse. Secondo le indiscrezioni che erano circolate alla vigilia dell’approvazione in consiglio dei ministri del Def, il governo era intenzionato ad inserire già nei saldi altri 2,8 miliardi per garantire gli 85 euro promessi con l’accordo politico con i sindacati del 30 novembre scorso. In realtà essendo il documento a «legislazione vigente», quei fondi non sono stati ricompresi nei saldi. Ma il governo ha comunque rassicurato che rispetterà gli impegni. Una indicazione che non ha però convinto la Cgil, che ha definito «fumose» le rassicurazioni contenute nel Def. Anche perché la tesi è che, essendo quello del 30 novembre un impegno vincolante come riconosciuto dallo stesso governo, avrebbe di fatto già cambiato la legislazione e dunque le risorse avrebbero dovuto essere indicate nel documento di finanza.
I rinnovi contrattuali sono uno degli impegni politici in vista della prossima legge di bilancio. Impegni dei quali non fa parte la riforma dell’Irpef, che non viene menzionata nel Def e sarebbe del resto finanziariamente impraticabile. C’è invece l’obiettivo di ridurre le tasse sul lavoro e più precisamente – spiega nel Programma di riforme – di «dare continuità alla riduzione del carico fiscale su cittadini e imprese, avviata con Irap e Ires e proseguire con il taglio dei contributi sociali, iniziando dalle fasce più deboli (giovani e donne)».
I DETTAGLI
I dettagli sono quindi tutti da definire ma appare confermata l’idea di ridurre il cuneo per gli under 35 e mettere a punto qualche misura specifica che favorisca il lavoro femminile. Che margini ci sono? Nel Def non si fanno cifre esplicite, ma a bocce ferme dato un deficit tendenziale pari all’1,3 % del Pil, che sarebbe ridotto a 1 proprio dall’effetto della manovrina sul 2018 (0,3% del Pil), resterebbe rispetto all’obiettivo programmatico posto a quota 1,2 un margine pari allo 0,2 ovvero 3-3,5 miliardi. Ma si tratta di calcoli abbastanza teorici visto che la priorità è trovare un modo di rimpiazzare con misure più digeribili gli aumenti di Iva e accise che formalmente sono inclusi nei saldi: per intanto si sa che un miliardo dovrebbe arrivare dalla nuova revisione della spesa a carico delle amministrazioni centrali. Il conto totale – salvo nuove forme di flessibilità da contrattare a Bruxelles – dovrebbe aggirarsi sui 14 miliardi, ovvero i 19,5 di incrementi fiscali già previsti meno i 5 già ottenuti con la manovrina. Proprio il fatto che le clausole di salvaguardie non siano state disinnescate, nonostante la volontà politica di evitare aumenti di tasse, fa sì che sulla carta la pressione fiscale salga tra 2017 e 2018 dal 42,3 al 42,8 per cento.
Il Messaggero – 13 aprile 2017