Formaggi italiani più attenti al valore che ai volumi. E questo spiega la crescita del made in Italy in un settore presidiato da tedeschi, olandesi e francesi. Del resto i mercati esteri sono una via obbligata per le nostre imprese che sul mercato nazionale registrano, nel periodo 2011-2016, una veloce erosione dei consumi stimabile nell’11% (a volume). È quanto emerge da uno studio di Agrifood Monitor presentato ieri a Parma in occasione dell’inaugurazione di Cibus Connect (oggi è l’ultima giornata).
Ma, all’estero, come va il braccio di ferro nel lattiero-caseario? Nell’ultimo decennio, il valore dell’export è quasi raddoppiato: +92%, più veloce del +72% delle esportazioni agroalimentari totali.
Protagonisti indiscussi sono i formaggi, che grazie ai 2,4 miliardi di vendite estere, che incidono per l’82% sul valore totale dell’export lattiero-caseario, mostrano tassi di crescita ancor più positivi, sia nel lungo periodo (+96% nel 2006-2016) che nell’ultimo anno.
Il mercato mondiale dei formaggi vale oltre 24 miliardi di euro: il 72% è concentrato nelle mani dei player Top 10. Tra i quali l’Italia che, con una quota del 10%, è dietro al panzer tedesco (14%) e a Olanda e Francia (entrambe al 12%). Tuttavia il nostro paese detiene la leadership di prezzo (6,23 euro/kg), con un netto distacco rispetto ai cugini d’oltralpe (4,42 €/kg) e soprattutto alla Germania (2,81 €/kg). «Tra il 2015 e il 2016 – commenta Denis Pantini, direttore dell’area agroalimentare di Nomisma – l’export di formaggi italiani è cresciuta del 7%, più del totale dell’export agroalimentare nazionale, fermatosi al +3,5%. Non solo: la performance è stata realizzata in un mercato mondiale che, dopo anni di crescita, è in difficoltà, come dimostra la sostanziale stagnazione nei valori degli scambi internazionali di prodotti caseari dell’ultimo biennio».
Nel paniere dell’export italiano sono infatti presenti alcuni dei formaggi di punta, fra cui le grandi Dop. Il nostro paese è il primo fornitore di Francia e Stati Uniti (con quote, rispettivamente, del 30% e del 24%), il terzo di Germania e Regno Unito e il quarto di Giappone e Spagna. Mentre a seguito dell’embargo commerciale Ue verso la Russia, del 2014, l’Italia ha perso quote importanti in Russia, rilevate dalla Bielorussia.
In questo contesto è emblematico il ruolo di Granarolo che negli ultimi anni, a fronte di uno scivolamento dei consumi domestici, ha accelerato sull’export e sulle acquisizioni in Italia (di Dop) e all’estero di impianti per la produzione di formaggi locali. Negli ultimi 15 mesi il gigante cooperativo (1,2 miliardi di ricavi) ha realizzato otto acquisizioni, di cui cinque all’estero. Tuttavia il mercato italiano rappresenta ancora il 76% dei ricavi. «Acquisiremo una società negli Stati Uniti quando ce ne sarà l’opportunità – ribadisce il presidente di Granarolo Gianpiero Calzolari -. Un mercato ricco ma che in tempi di protezionismo strisciante potrebbe risultare molto utile».
La vicinanza geografica e la possibilità di libero scambio fa sì che la principale destinazione estera dei formaggi italiani sia l’Unione Europea (72% del valore dell’export italiano). Ma accanto a mercati più tradizionali ne emergono altri di piccole dimensioni, come Romania, Polonia, Cina e Corea. Emblematico il caso cinese, che, pur essendo ancora di piccole dimensioni (circa 380 milioni nel 2016), mostra tassi di crescita vertiginosi: +118% nel periodo 2013/2016.
Vi sono paesi come gli Stati Uniti con un valore 2016 del mercato all’importazione di 1,2 miliardi di euro, in vivace crescita (+32% a valore nel 2013/2016), in cui il nostro paese è leader sia per volumi di vendite (17%) che per il prezzo (8,2 €/kg) con un netto distacco dagli altri competitor.
Come questi trend abbiano impattato sulle performance economiche e finanziarie delle imprese emerge da un’analisi condotta sui bilanci di 256 società di capitali e cooperative, rappresentative del 75% del fatturato del lattiero caseario. Nel periodo 2012/15 il valore del mercato italiano è calato a una media annua dello 0,8%. Al di là del trend generale è rilevante lo spostamento delle vendite tra segmenti merceologici a beneficio di altri che intercettano i nuovi bisogni salutistici del consumatore: per esempio, bevande vegetali, biologico, a ridotto contenuto di grassi, senza lattosio.
«Queste tendenze del mercato – osserva Paolo Bono, associate presso Crif Ratings – hanno consentito di migliorare marginalità e sostenibilità finanziaria anche in un contesto di riduzione delle vendite. L’Ebitda del settore è passato dal 5,2% del 2012 al 6,2% del 2015, mentre la leva finanziaria (misurata come rapporto tra debito finanziario lordo ed Ebitda) è passata dal 4,6 al 4,2». Lo spostamento delle vendite dall’Italia all’estero e tra categorie di prodotti sembra aver favorito un miglioramento della marginalità e della rischiosità finanziaria.
Il Sole 24 Ore – 13 aprile 2017