Nei giorni in cui l’Unicef, Save the children, l’associazione dei docenti e dei dirigenti scolastici italiani, i maestri cattolici, i genitori democratici e altre otto associazioni scrivono al governo per chiedere che impugni davanti alla Corte costituzionale la legge che ha introdotto il criterio «Prima i veneti» nell’accesso agli asili e alle scuole materne (priorità ai figli di chi risiede nel territorio della regione da almeno 15 anni anche non continuativamente e di chi per lo stesso periodo vi ha lavorato ininterrottamente), ritenendolo in contrasto con la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e con svariate direttive europee, la maggioranza in consiglio regionale non solo non arretra, ma rilancia: «Prima i veneti» in tutti i servizi sociali, dalle case di riposo agli alloggi popolari, dai bonus famiglia al sostegno ai disabili.
Riccardo Barbisan, vice capogruppo della Lega e primo firmatario della proposta di legge, preferisce parlare di «principio di residenzialità» e dice di essersi ispirato alla Provincia di Trento, «dove il centrosinistra governa ininterrottamente da 70 anni». Lì, spiega il leghista, «il criterio premiale della residenzialità viene utilizzato da sempre nelle politiche del welfare e nessuno si scandalizza. Diciamo che questa legge, se sarà approvata, ci avvicinerà un po’ di più al modello autonomista a cui aspiriamo». Il progetto è piuttosto scarno e conta due articoli soltanto. Nel primo, rubricato «Finalità», si spiega che «la Regione, nell’ambito delle iniziative di politiche sociali, in considerazione della scarsità di risorse, interviene a favore dei soggetti economicamente più deboli ai fini dell’erogazione di contributi regionali o degli enti locali o altri servizi e utilità economicamente valutabili e dell’assegnazione di beni anche immobili». Nel secondo si specifica che «costituisce titolo per l’accesso ai benefici» di cui all’articolo precedente «il possesso, da parte dei richiedenti, della residenza anagrafica o l’aver prestato attività lavorativa da almeno 5 anni in Veneto». Dunque la prima barriera è all’ingresso: se non abiti o lavori in Veneto da almeno 5 anni la tua domanda finisce dritta nel cestino. Poi ci sono i bonus: «Costituisce, altresì, titolo preferenziale per la formazione delle graduatorie dei richiedenti, la residenza anagrafica o attività lavorativa esclusiva o principale in Veneto: a) da almeno dieci anni: punti 5; b) da almeno venti anni: punti 10; c) da almeno trenta anni: punti 20».
Come si vede, la legge non precisa in modo analitico di quali servizi si stia parlando, limitandosi a declinare il principio generale. È però Barbisan ad elencare: «Parliamo dei bonus scuola e per le paritarie, delle impegnative per la residenzialità degli anziani, dei contributi per gli affitti onerosi, dei sostegni alla disabilità, dell’accesso agli alloggi popolari». E non è un caso che la sua proposta segua quella, già approvata dal consiglio, dei furono «tosiani», che ha imposto in asili e materne il «Prima i veneti» (fortunato slogan della campagna elettorale 2010 di Luca Zaia che Matteo Salvini e Giorgia Meloni sembrano intenzionati a replicare alle prossime Politiche con «Prima gli italiani»): «Vogliamo che il criterio ispiri la nostra intera produzione legislativa in materia di welfare» spiega Barbisan.
Attacca Piero Ruzzante, consigliere di Articolo 1-Mdp: «Questa legge avrà effetti paradossali perché il criterio della residenzialità finirà per castigare gli stessi veneti che dopo aver lasciato la nostra regione vorranno farvi ritorno. Basta una proposta di lavoro o un’opportunità di studio a Milano, Bologna o Roma per azzerare il “contatore”. Per non parlare poi dei veneti residenti all’estero o dei cervelli in fuga o di chi, come gli agenti delle forze dell’ordine o gli insegnanti, non possono decidere la sede di lavoro. Ma Zaia, Barbisan e la Lega lo sanno che ogni anno 10 mila veneti sono costretti ad andare all’estero?». Barbisan apre alla possibilità, durante il confronto in commissione e in aula, di sostituire il criterio di residenzialità continuativa con quello di residenzialità storica (per cui i 5, 10 o 15 anni possono essere conteggiati anche in modo non continuativo) mentre sugli effetti paradossali che potrebbe generare la legge, penalizzando ad esempio un ragazzo veneto tornato dopo la laurea a Milano a favore di un ragazzo straniero arrivato qui nel 2012, il leghista taglia corto: «Se uno straniero vive e paga le tasse qui per me conta esattamente come un italiano e questo anche ai fini dell’accesso ai servizi sociali. È la sinistra che vorrebbe incasellarci in recinti che non ci appartengono».
Marco Bonet – 6 aprile 2017