C’è un’Italia di superlavoratori. Gente per cui le 12 ore al giorno sono la norma. E la colpa non è solo delle tecnologie e della reperibilità a oltranza. Spesso — paradosso dimenticato — a creare nuovi stacanovisti è stata la stessa crisi. Parliamo di infermieri, addetti alle consegne, pubblicitari, esperti di marketing e comunicazione, consulenti. In generale, professionisti dei servizi più che del manifatturiero. Su un punto il superlavoro non discrimina: riguarda i senior specializzati tanto quanto i giovani al primo impiego. «T’immagini se da domani davvero tutti quanti smettessimo! Quante famiglie sul lastrico, altro che crisi del dollaro, questa sì sarebbe la crisi del secolo» cantava Vasco Rossi. Era il 1985. Nel frattempo il secolo è cambiato. Oggi i superlavoratori non vagheggiano nessuna rivoluzione, sanno di essere dei privilegiati. Di certo non hanno alternative perché sulla sponda opposta del mercato del lavoro ci sono quelli che il posto non ce l’hanno. O i sempre più numerosi forzati del part time involontario, costretti ad accontentarsi di uno stipendio dimezzato. Che volentieri prenderebbero il loro posto.
Straordinari in ripresa
Centri studi e istituti di ricerca, dall’Istat a Confindustria, ci dicono oggi che la ripresina sta lentamente prosciugando il bacino della cassa integrazione. E altrettanto lentamente riavviando la richiesta media di straordinari. «È un buon segno — dice Carlo Dell’Aringa, economista del lavoro alla Cattolica di Milano prima di diventare senatore del Pd —. La principale emergenza del nostro mercato del lavoro sono quelli che il posto non ce l’hanno». Impossibile dargli torto. È anche vero però che quando si vogliono guardare le situazioni più nel dettaglio le medie statistiche diventano occhiali dalle lenti sfuocate .
Nella classifica Ocse delle ore lavorate gli italiani — con 1.725 ore medie annue — si piazzano appunto intorno alla media. Se ci paragoniamo, però, ai Paesi più sviluppati siamo tra quelli che lavorano di più. In Europa usciamo dall’ufficio più tardi dei francesi (1.482 ore), dei tedeschi (1.371 ore) e degli spagnoli (1.691). Ci battono i greci: 2.042 ore. Se si tiene conto che il record di ore lavorate ce l’hanno i messicani (2.246 ore), però, qualche campanello d’allarme dovrebbe suonare. Perché i Paesi dove si lavora di più sono spesso quelli in cui la produttività del lavoro è più bassa .
Manager poveri di tempo
Nel caso dell’Italia, poi, la media spiana situazioni agli antipodi. Rende uguale ciò che uguale non è: da una parte i cassintegrati (aumentati con la crisi) che non stanno lavorando, dall’altra gli habitué del «giro dell’orologio»: le 12 ore al lavoro, quelli che escono alle 8 e tornano alle 8, ma nel frattempo si è fatta sera.
Chi sono questi stacanovisti nascosti nelle pieghe delle statistiche? Prima tipologia: il quadro/dirigente dei servizi che lavora molto al telefono o al computer. Luogo d’elezione: Milano e il Nordovest. Specializzato e con competenze non facilmente sostituibili. Le aziende negli ultimi anni hanno ridotto all’osso gli staff. È così chi è rimasto ha carichi di lavoro maggiori. Lo smartphone, Skype e la globalizzazione (Trump permettendo) fanno il resto. Manageritalia, associazione di dirigenti e quadri dei servizi, ha fatto un’indagine tra gli associati. La stragrande maggioranza lamenta un aumento dell’orario di lavoro. Attenzione, gli stipendi dei professionisti in grisaglia — ancora in gran parte uomini e con l’iPad sottobraccio — non sono più quelli degli anni 90. Complice anche la concorrenza dall’esterno di quelli che sono rimasti senza lavoro. Da notare anche un altro aspetto. La smaterializzazione del posto — sempre più spesso si lavora fuori azienda mentre in ufficio la scrivania è in condivisione — in alcuni contesti favorisce un aumento complessivo delle ore lavorate .
Meno produttivi dal ‘90
Altro caso è quando il superlavoro diventa la mossa disperata di un sistema con una produttività che non cresce più. La produttività del lavoro nel nostro Paese non cresce dalla fine degli anni 90. Tre i principali motivi: perché l’organizzazione del lavoro non è efficiente; perché si è smesso di investire e ora si lavora con macchinari superati; perché semplicemente si continuano a sfornare prodotti o servizi che ormai il mercato non vuole più. Spesso dove la produttività non cresce si cerca di restare a galla abbassando il costo del lavoro. Un modo è aumentare l’orario a compensi costanti. Il sindacato segnala come sempre più frequenti i casi di straordinari non pagati. La Cisl della Lombardia addirittura sta pensando a una app da dare gratis ai lavoratori per dimostrare le ore effettivamente lavorate.
Sempre al volante
Prendiamo il settore della logistica e delle consegne. Qui gli addetti alla guida dei furgoni lamentano orari di lavoro lunghissimi, che talvolta mettono a rischio la sicurezza. Come è possibile? Con straordinari pagati il 30 per cento in più dell’ora normale dovrebbero essere le stesse imprese a non avere convenienza a imporre questi tour de force . «Il punto è che spesso si sostituiscono gli straordinari con indennità di trasferta nette in busta paga che non incidono su ferie, contributi e Tfr. In qualche modo il part time forzato dei call center o dei supermercati identifica una soluzione opposta in materia di orario che però permette di raggiungere lo stesso obiettivo, e cioè un contenimento del costo del lavoro. Perché le ore supplementari fatte in aggiunta al part time — fanno notare i consulenti del lavoro — costano in media il 10 per cento in meno dello straordinario. Con il Jobs act, poi, il lavoro supplementare svolto dai par timer ha meno vincoli. Come si vede dai dati dell’osservatorio Inps sul precariato, poco meno del 40 per cento degli avviamenti a tempo pieno avviene part time.
Profitti in diminuzione
In tutto questo, sarebbe un grave errore imputare alle imprese il peggioramento di orari e modalità di lavoro. Chi avesse dubbi può leggersi un documento della Banca d’Italia scritto da Marco Torrini. Se immaginiamo il Pil come una grande torta divisa in tre fette, quella del lavoro (compreso quello autonomo), quella dei profitti e quella della rendite immobiliari, allora scopriamo che dal 2000 in poi la fetta dei profitti si è costantemente ridotta passando dal 28,5% del 2000 al 21% del 2015. La quota del lavoro è salita dal 61,7 per cento al 66,3. Attenzione però: di fondo il problema è che il Pil complessivo dal 2000 al 2015 si è ridotto. Di conseguenza, la «fetta» del lavoro pur essendo aumentata in quota parte è diminuita in valore assoluto.
Morale: a questo punto della storia, se vogliamo avvicinarci un po’ alla Germania, dove tutti escono dall’ufficio alle 17, con un tasso di disoccupazione al 5,8 per cento e stipendi decisamente più alti dei nostri, la strada può essere soltanto una: far ripartire la produttività del lavoro. E allora le app sull’orario di lavoro, invece che per fini rivendicativi, potrebbero essere usate in altro modo. «All’aeroporto di Stoccarda grazie a una app i lavoratori si auto organizzano i turni tenendo conto delle loro esigenze familiari oltre che di quelle produttive», segnala Josef Nierling, ceo della so cietà di consulenza tedesca Porsche consulting .
I giovani a «rimborso»
P er finire, i giovani. «Anche tra i ragazzi in stage o al primo impiego i casi di superlavoro, purtroppo scarsamente retribuito, sono frequenti», fa presente Eleonora Valtolina della repubblica degli stagisti. Maria, 26 anni, fresca di laurea, ci racconta sotto garanzia dell’anonimato come si sta svolgendo il suo stage in una agenzia di pubblicità. «Le 12 ore al giorno sono la norma per un rimborso spese che nei casi migliori arriva a 500 euro. Molti di noi non si fanno domande. Si sentono comunque fortunati rispetto ai coetanei che non hanno nulla da fare. Io comunque sto pensando di andarmene. Lei cosa farebbe?». Davvero difficile dare un consiglio .
di Rita Querzé – Il Corriere della Sera – 2 aprile 2017