Francesco La Licata. I turisti che, nei pomeriggi caldi, girano in barca per le Eolie o tra Marettimo e Favignana, oppure al largo di Lampedusa, stanno con gli occhi fissi sulle onde di cobalto in attesa della visione che possa farli emozionare.
Quando arrivano le grida gioiose vuol dire che hanno visto i delfini. Ed è uno spostarsi continuo, da un lato all’altro dell’imbarcazione, per non perdere nessun movimento di quella danza aggraziata.
Un po’ meno emozione provocano, i delfini, negli equipaggi dei pescatori di qualunque latitudine. Il mare non è mai stato generoso coi pescatori, almeno con quelli che si spaccano la schiena a calare e tirare le reti. Maggior fortuna è stata riservata ai grossisti, cioè a chi mette il capitale, compra a poco e batte l’asta a prezzi decuplicati. Il marinaio ha mani piagate dal sale e tasche vuote. Sulla povertà dei lavoratori del mare c’è vasta letteratura tramandata in prevalenza oralmente.
Tra gli Anni Ottanta e Novanta chi andava in vacanza nelle «isole piccole» della Sicilia (Eolie, Egadi, Lampedusa, Pantelleria e Linosa) per comprare a buon prezzo le aragoste andava incontro ai pescatori nella speranza di incrociarli al largo, prima che fossero costretti a depositare il pescato nelle mani del mediatore-ras. E in questo breve incontro clandestino era possibile ascoltare molti racconti di tribolazioni causate dal mare. Molto spesso dai delfini che, come oggi, rompono le reti e mangiano gran parte del loro contenuto.
È una strana guerra, quella dei pescatori contro i delfini. Non apertamente cruenta perché non si ricordano episodi di violenze su una specie molto amata, rispettata e – soprattutto – protetta. Anche se più d’una volta la sabbia mossa dalla burrasca ha restituito molte carcasse di cetacei, come nell’«Orcinus Orca» di Stefano D’Arrigo, dove i delfini, a dispregio della loro mite apparenza, vengono chiamati col nome di «fera». I pescatori hanno sempre subìto quasi rassegnati. Ma adesso dicono di non poter resistere oltre e chiedono non repressione sui delfini, ma almeno un qualche indennizzo. Come avviene quando entra in vigore il fermo biologico che tiene le barche a secco, in attesa della ripopolazione.
Non vive nel lusso chi vive di pesca. Ed è per questo che talvolta si scivola nell’illegalità: la ricerca dei frutti di mare «proibiti» ma desiderati e ben pagati o la «neonata», proibitissima perché la sua cattura allunga di molto i tempi della ripopolazione. Non è trascorso neppure mezzo secolo da quando il pescatore riusciva a malapena a barattare (accadeva a San Vito Lo Capo o a Scopello) sarde e sgombri con ortaggi e frutta. E i prodotti della terra valevano di più.
Più fortuna avevano quelli che riuscivano a lavorare nelle tonnare: si pescavano i tonni e si lavoravano negli stabilimenti fino all’inscatolamento. Ma il mare di quel tempo era davvero generoso. Negli uffici della tonnara Florio, a Favignana, una lapide certifica che in una sola stagione furono catturati 6828 tonni. Oggi è festa se nella «camera della morte», durante la mattanza, ne entrano duecento e non di grandi dimensioni. Il resto, il più appetibile, rimane molto più a Nord, ingabbiato coi sonar delle grandi navi che restituiscono il tonno direttamente nelle scatolette.
Fu quello (fine Ottocento metà Novecento) il periodo d’oro delle tonnare: Bonagia, San Vito, Marzamemi, Scopello, gli stabilimenti dei Bordonaro a Palermo, la bottarga di Siracusa. L’imperatore della mattanza era il «rais». I più bravi, come documenta Ninni Ravazza che sul tema ha portato avanti numerose ricerche, venivano addirittura assunti anche fuori, per esempio in Libia. Si racconta di mattanze di 8000 esemplari negli stabilimenti di Zanzur.
Oggi il mare sembra essersi asciugato, dà poco e non ci si può permettere il lusso di dividere il pescato con le «fere». E non è il caso di tentare sconfinamenti nelle acque dei cugini africani, come accadeva più spesso qualche tempo fa: ogni sequestro delle nostre imbarcazioni ha un costo che rende il rimedio molto peggiore del male.
La Stampa – 29 marzo 2017