Ogni mattina, quando esce dal porto di Marettimo, Matteo sa già che dopo 500 metri ci sarà il suo delfino ad attenderlo. Sa che riconoscerà dal suono del motore il suo peschereccio e mangerà le sue prede. Un destino ineludibile, una guerra persa. Una favola all’incontrario, che rovescia il rapporto fra l’uomo e il migliore amico fra le onde: i pescatori con le reti vuote, in Sicilia, non hanno più voglia di credere alle fiabe. Ce l’hanno con i cetacei che dimezzano il loro reddito e con chi, nelle istituzioni, non li tutela in questa battaglia. «Oggi chi va per mare odia i delfini quanto i politici», dice con mirabile sintesi Giovanni Tumbiolo, presidente del distretto produttivo della pesca che raggruppa 120 imprese del settore. D’improvviso, davanti a un problema che si fa sentire sempre più, le marinerie sono insorte. Dalle Eolie a Lampedusa, da Palermo a Mazara del Vallo, è un fiorire di proteste. E di richieste di interventi, leggasi risarcimenti, alla Regione.
«Ca-la-mi-tà», urla Giuseppe Spinella, vicepresidente del Cogepa, il consorzio dei pescatori eoliani. Lui racconta di una “guerra” che si rinnova ogni notte. «O noi o i delfini», dice. Facendo eco a colleghi che vivono come un incubo la presenza dei cetacei che, spinti dalla crescente carenza di pesce, lasciano il mare aperto e si spingono sotto costa, accerchiano le barche, aggrediscono i tramagli, le reti a circuizione, le totanare: depredano il bottino dell’uomo, appunto. Il racconto, a questo punto, assume i toni del noir: Vincenzo Giuffré, che da 25 anni solca i mari di Lipari, racconta dei «brividi avvertiti ogni sera sentendo i delfini sbuffare» e del «ghigno dei cetacei che sbucano dall’acqua». Non è paura, è spirito di sopravvivenza di lavoratori che prima portavano a casa 25 chili di totani e ora solo tre, che denunciano di non riuscire a coprire neppure le spese del gasolio con i proventi del pescato. Da Lipari a Palermo, è una litania. Ignazio Spataro, presidente della cooperativa “Onda lunga”, parla al telefono dal suo peschereccio: «Sono appena uscito e a 50 metri dalla costa ho già incontrato due delfini. Ormai entrano pure nel porto. Sto rientrando, non credo che stasera pescherò nulla. Nessuno vuole far male ai delfini, ma questa è una situazione impossibile». E via con un altro amaro bilancio: «Prima riuscivo a portare a casa 5 chili di pesce. Stamattina mi sono trovato con 5 pagelli e un merluzzo, trenta euro di ricavi e devo togliere le spese. I delfini sono animali intelligentissimi: riconoscono e seguono le imbarcazioni, sanno come prendere le prede. E fanno un doppio danno: noi perdiamo il pescato e intere giornate a rammendare le reti».
Di qui le manifestazioni di protesta anche eclatanti: i pescatori delle Eolie hanno indetto due giorni di “sciopero”, una delegazione di Palermo e Castellammare del Golfo andrà a protestare in Regione. Tumbiolo chiede che la minaccia dei delfini venga inclusa fra le calamità naturali e dunque fra le cause di risarcimento. Ma i soldi sono pochini, trentamila euro per tre anni. Altri, come il presidente del consorzio di pescatori lampedusani Salvatore Martello, pensano invece a contributi per l’acquisto di dissuasori sonori che allontanino i delfini dalle barche. Forse, dietro la battaglia contro i cetacei, è ripartita in Sicilia la corsa al contributo pubblico. Di certo, questa situazione ha già provocato insensati attacchi contro i delfini: «I pescatori, nella stragrande maggioranza, non vogliono far male ai delfini, ma non è un caso — dice Giovanni Basciano (Agci pesca) — se sono sempre di più i cetacei spiaggiati con ferite da fucili da sub. C’è un problema oggettivo che porta a volte ad azioni non condivisibili». E si torna alla favola rovesciata, all’uomo contro l’animale simbolo di gioco e amicizia: «Il problema — afferma Tumbiolo — è che le politiche di eccessiva protezione di alcune specie, e non di altre, hanno abbattuto le risorse ittiche e creato un’impossibile concorrenza fra i pescatori e i delfini che si contendono il poco pesce rimasto. Una riflessione bisogna farla». Ma Monica Blasi, biologa della Filicudi wildlife conservation, ribalta il ragionamento: «Se i pescatori avessero sempre rispettato le regole a salvaguardia del patrimonio ittico forse oggi avrebbero qualche restrizione in meno. Ora bisogna collaborare, senza alimentare stupide guerre. In mare e fuori». (Vai alla fonte)
Repubblica – 22 marzo 2017